segnalato da Teresa Denurra da “Le parole e le cose”
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Propongo alla redazione questa intervista. Di Gavino Ledda ho letto sicuramente Padre padrone e ho visto Ybris, mentre non ricordo quasi nulla su Lingua di falce: mi pare di averlo letto, ma è passato talmente tanto tempo che tutto potrebbe essere. Spero che i lettori di Ponzaracconta avranno un loro intenso “momento Gavino Ledda”, la cui storia di vita mi ha sempre molto colpito. Storie dure di terra sarda e comunque di culture dove la terra e la pastorizia sono il centro di tutto. In gioventù ho conosciuto una persona – si chiamava Graziano – con un vissuto infantile e adolescenziale sovrapponibile a quello di Gavino Ledda. Poi, partendo da semi-analfabeta, ha studiato a marce forzate, si è laureato in architettura, ha esercitato la professione e ha fatto anche l’insegnante, ma era fondamentalmente un inquieto: la solitudine del bambino che pascola il bestiame gli era rimasta dentro come un male incurabile.
Piccola curiosità: il marito della zia Rosita di cui ho scritto, il ferroviere, si chiamava anche lui Gavino Ledda.
Teresa
Benché piuttosto lunga. una lettura irrinunciabile per i lettori di Ponzaracconta. Fatta tutta anch’io, priva di voi. Non mi sono annoiato e non me ne sono pentito. Davvero si entra in un altro mondo, quello dei ‘padri padroni’. Che è coesistito con noi, nel nostro tempo, anche seci può sembrare una storia aliena
Sandrorusso
Gavino Ledda. In dialogo con Francesco Ottonello
E’ appena uscita per Mondadori la nuova edizione di Lingua di falce di Gavino Ledda, a cura di Francesco Ottonello. Proponiamo un’intervista di Ottonello a Ledda che fa da postfazione al volume.
Francesco Ottonello – Propongo di iniziare con una domanda schietta. In che modo il Gavino Ledda di oggi, dopo mezzo secolo, vede il Gavino Ledda di allora, autore dei romanzi Padre padrone e Lingua di falce?
Gavino Ledda – Li ritengo ancora validi e attuali, perché abbiamo moltissimo bisogno di amare la terra e l’agricoltura più di quanto, probabilmente, non ne avevamo quando li scrissi e videro la luce. È una cosa impressionante quanto l’uomo si sia allontanato dalla terra. Quindi li ho riproposti a Mondadori come sono usciti nel 1975 (Padre padrone), nel 1977 (Lingua di falce) – e poi nel 1995 (I cimenti dell’agnello) – senza nemmeno rivederli. L’ideale sarebbe stato “ripassarci come scrittore”, ossia rifarli, però – in altre faccende affaccendato – questo non mi è stato possibile. Questa condizione mi dà la possibilità di crearmi una barriera che mi difende per almeno altri due anni, prima di uscire con un libro nuovo a cui sto lavorando dal 1998, un “Padre padrone rimodulato”. Lingua di falce prosegue la narrazione di Padre padrone, sebbene in modo più riflessivo e corale. È possibile quindi che i libri siano stati scritti nello stesso arco di tempo, oppure Lingua di falce nasce successivamente? Sì, in un primo tempo avevo concepito un libro unico, che diedi alla Feltrinelli. Dopo un braccio di ferro, l’editore mi impose di fermarmi alla pagina con la partenza per Salerno. Quando la Feltrinelli mi disse “fermiamoci a Salerno” mi fece male: avevo pensato di non firmare… A me Padre padrone la Feltrinelli non l’ha lasciato finire. Lavorandoci ancora due anni lo avremmo avuto molto più bello, molto più profondo di quanto non lo abbiamo adesso. L’editore, una volta visto il dattiloscritto, non vedeva l’ora di pubblicarlo e, nonostante le mie insistenze, lo ha pubblicato così com’era. Per me era immaturo, lo considero addirittura un’opera incompiuta. Lingua di falce, quindi, è stato rifatto successivamente. È riflessivo perché ci sono due anni di lavoro in più e c’è la coscienza di fare un altro volume. Il libro inizia con un sogno, un fantasma poetico diverso. All’inizio questa partenza per Salerno era soltanto accennata, perché era ancora il corpo di un libro. Dovendo diventare l’incipit di un altro libro è chiaro che dovevano esserci nuove fondamenta: sono andato in profondità in quel punto perché dovevo fabbricare un grattacielo, un nuraghe.
Ti ringrazio, Gavino, per avermi permesso di fornire per la prima volta una cronologia dettagliata dell’arco narrativo della tua opera attraverso il confronto avvenuto durante alcune telefonate. Perché, in effetti, alcuni conti non mi tornavano. In uno specifico passaggio di Lingua di falce dici di avere venticinque anni…
In Lingua di falce, quando parlo del ritiro delle lastre per l’ulcera, siamo nel febbraio del 1963 e poco prima ricordo di essere venticinquenne, per approssimazione. Sono entrato nei venticinque anni, che in realtà compio il 30 dicembre 1963. Anche nella prima pagina di Padre padrone compare un errore nella datazione: la mia prima volta tra i banchi di scuola risale al 7 gennaio 1945, e non al 1944, come appare nell’incipit del romanzo.
Quando hai iniziato a concepire la tua opera e quali sono state le tue prime letture?
Ho cominciato a pensare di scrivere Padre padrone nel 1970, a “gestarlo”, nel senso di maternità, ma era una gestazione già avvenuta in ventre hominis, era un atto dovuto a me stesso. Padre padrone inizia dallo strappo dalla scuola del 1945. Quindi, una volta finito il divagamento ferino di Baddevrústana, nel 1961 ho superato la licenza media a Pisa nella scuola “Renato Fucini”: vestito da sergente, perché non avevo voglia di vestirmi in borghese. Al tempo ero artigliere nel reggimento di artiglieria contraerea pesante presso piazza dei Miracoli, a ottanta metri. Ho saputo un mese dopo, d’estate, al campo di istruzione a Ravenna, che ero stato promosso. Poi, nel 1962, anno in cui inizia il racconto di Lingua di falce, mi sono congedato. Già nel campo a Ravenna leggevo Il fuoco di D’Annunzio, ogni giorno quattro o cinque pagine: facevo l’elenco delle parole che non capivo, poi la notte le guardavo nel vocabolario, e così ho imparato molte parole; della trama non mi interessava, anche perché lo trovavo troppo difficile per il me di allora. Il fuoco mi è capitato per caso. Come primo libro ho letto l’Iliade di Omero, poi l’Odissea, poi Dante, Petrarca, Boccaccio, poi sicuramente Machiavelli e Leopardi. Tutti gli altri libri li ho letti dopo.
Ma io sapevo da sempre che avrei vissuto di parole. Lo sapevo da quando ero pastore, lo sapevo prima della terza media, del ginnasio e del liceo. Fino alla laurea alla Sapienza di Roma (dicembre 1969) ho tenuto gelosamente questo segreto dentro di me e non l’ho detto nemmeno a me stesso, non ho provato a scrivere una sillaba. Una volta laureato, nell’estate del 1970, ho provato a interrogarmi in silenzio, ma prima di prendere la penna e rispondere alle domande ci ho pensato ancora. Ho cominciato a rispondere a queste domande nel settembre del 1970. Sapevo che avrei dovuto scrivere, mi toccava, mi spettava. Le interrogazioni a me stesso consistevano nel trovare la motivazione etica, morale, sociale e soprattutto storica per cui avrei dovuto scrivere. Dopo avere risposto a queste domande – ad alcune anche per iscritto –, ho pensato che avrei dovuto realizzare non un saggio, ma un libro narrativo.
Quindi hai sviluppato una precisa modalità di scrittura?
Quando mi metto a scrivere non so che cosa devo scrivere, preferisco non saperlo: mi siedo, scrivo e lo so solo quando finisco e mi alzo dopo quattro ore. Cosa è uscito? Ecco, questo. Mi devo sorprendere e, se non mi succede, non sono contento. Quello che scrivo domani io non lo so, preferisco non saperlo. Quando scrivo dalle dieci alle due, magari la prima sorpresa c’è alle undici, poi un’altra a mezzogiorno, poi un’altra ancora all’una e mezza. Se non ci sono, significa che non ho scritto bene.
In Lingua di falce rendi conto di alcuni rituali sardi, in cui la vivacità del racconto dell’esperienza personale è arricchita dalla riflessione antropologica, compiuta in un tempo successivo più maturo. Nella tua opera mi sembra che non compaia un senso di nostalgia. Adesso, invece, provi un sentimento in qualche modo nostalgico verso un mondo rituale che, quasi, non esiste più?
Per me la parola “nostalgia” non esiste, perché sono talmente cresciuto e maturo da essere in grado di descrivere qualsiasi rito in maniera distaccata. Prendiamo ad esempio il rito delle acque per come lo immagino io, che avveniva ad Antas oppure a Santa Cristina oppure presso le sorgenti – sembra che in Sardegna praticamente si adorasse solo l’acqua: l’acqua per me non è più come era l’acqua per quella gente che la adorava tremila, quattromila anni fa. L’acqua per me è un’altra cosa, senza una notazione così irrazionale. Io adesso sono fisico, sono chimico. Ma non ricordo se in Lingua di falce ero già così distaccato.
Sia in Lingua di falce sia nel film Ybris ho inserito qualche rito che mi interessava, ma un po’ anche “per fare cinema”. Poi il fatto che i pidocchi di testa guariscano l’ulcera è una cosa veramente ridicola, no? Oggi lo racconterei per ridicolizzare quel mondo, finalmente. Tia Fiorentina, se mi ricordo bene, mi ha curato però quando ero malato da bambino con il decotto di malva. Nella sua ignoranza, riconosco che aveva ragione, perché la stessa scienza oggi direbbe di farsi un bel decotto di malva, purché questa malva sia colta da una terra sana, non contaminata. Tutte le superstizioni andrebbero quindi filtrate attraverso la scienza.
Ma certi rituali come sa correddada sono descritti realisticamente? Io, purtroppo, non l’ho mai conosciuta. Se non ho capito male, si tratta di una festa rituale celebrata in occasione di un matrimonio tra persone rimaste vedove, coinvolge tutto il paese e prevede una chiassata di bande di giovani celibi. Durante questa festa volavano davvero motteggi osceni e battute licenziose? Mi hanno ricordato lo spirito carnascialesco e quelle forme comico-teatrali arcaiche del mondo etrusco e latino come i fescennini.
Io ho raccontato attraverso i fatti, perché questo, secondo me, era corretto allora e forse lo è sempre. Oggi, certo, li racconterei diversamente. Ancora adesso, se si dovessero sposare due vedovi a Siligo e a Banari, la “scornellata” sarebbe doppia. Basta anche un vedovo per sa correddada ma in Lingua di falce e in Ybris erano due i vedovi, quindi era una festa doppia. La festa aveva un senso apotropaico per fugare le corna. Siccome i cornuti erano anche i morti, nella piazza sopraggiungono il marito e la moglie morti. La bellezza di questo dramma è che si svolge a quattro: tra due vivi e due defunti. In Lingua di falce ci sono due spiriti, mentre in Ybris c’è tutta la folla: siccome tutti bevono dalla stessa botte, appare un espediente drammaturgico per cui alla fine questo vino si incorpora nel paese. Diventano tutti spiriti, però si alternano: ora parlano da spiriti, ora parlano da paesani.
Tieni presente che questi non andavano a vedere Plauto, era tutto calato nella realtà. Sicuramente la letteratura aveva attinto – come sempre – dal popolo, per cui, se trovassimo qualcosa in comune con una commedia o addirittura con il dramma satiresco greco, io non mi sorprenderei per niente. I pastori sardi e i pastori omerici, anche se erano lontani e non si sono mai incontrati, sempre avevano in comune la pecora, le vacche, gli animali, l’ambiente. Sai, molte cose succedono indipendentemente, perché l’ambiente è lo stesso: tra l’ovile di Ulisse e quello mio, di Abramo, sono convinto che non c’era nessuna differenza, se non che mio padre era padrone solo di venti ettari di terreno, mentre Ulisse era un re, o almeno così ci dicono.
Che differenza rappresentano nel tuo immaginario Baddevrústana e Nuraggine, termine che appare la prima volta in Lingua di falce?
Baddevrústana ce l’ho solo io in corpo! Nuraggine, metaforicamente, la avrebbe chiunque: è come una fiaba, un’atmosfera, uno spazio favoloso dove c’è tutto. Nuraggine doveva rappresentare un topos teatrale più che fisico-terrestre. Poteva anche significare la Sardegna, ma una storia se compare su un libro non è più nella terra e il libro è anche teatro. Quindi Sardegna – o Sardena, come la chiamo io in sardo – indica un fatto reale-reale, mentre Nuraggine è un piedistallo rispetto a un avvenimento veramente successo, ed è anche una specie di ponte. Per me serviva a distinguere la temporaneità dell’evento, da una parte, e il dopo evento in un luogo che non è più la terra dove è avvenuto. E questo luogo è Nuraggine, che potrebbe essere qualsiasi parte della Sardegna ma anche qualsiasi teatro. Sa di fiabesco; oggi direbbero una piattaforma particolare, forse. In effetti, Nuraggine avrebbe potuto/dovuto titolare l’intera opera, poi si decise di fermarsi a Salerno: nella prima parte fu Padre padrone a prevalere, mentre nella seconda, due anni dopo, fu Lingua di falce a prendersi il titolo. Tuttavia, ancora oggi, Nuraggine renderebbe giustizia a tutte e due le opere. E cioè: Nuraggine: Padre padrone e Lingua di falce.
Nuraggine quindi non rappresenta solo la terra sarda, ma tutta una cultura. Tu dici, però, di essere andato anche contro la morale di Nuraggine…
Io ho fatto quello che ho sentito di fare. Scomodando Sofocle, Antigone ha fatto quello che sentiva di fare e paga una hybris troppo pesante. Io ho studiato con vent’anni di ritardo, però ho studiato: contro tutti, contro la comunità, se vuoi contro Nuraggine e contro la Sardegna, e ho pagato con l’ulcera, mentre Antigone ha pagato con l’impiccagione. Perché mi è venuta l’ulcera? Sicuramente per lo sforzo, non per la vendetta del paese. Invece, purtroppo, la hybris che subisce Antigone è la vendetta di Creonte. In ogni caso, Ybris è diverso da Lingua di falce: è una diceria che si tratti di una versione cinematografica del romanzo. Finiscono tutti e due con la morte, senza farlo apposta.
Sì, in Lingua di falce ci sono il cimitero e la tomba, mentre Ybris si conclude con un’immagine del fuoco, che appare però anche all’inizio…
Con l’immagine del fuoco e della scalata alla montagna. Ti ricordi che le maschere vanno tutte sul monte? La capanna di fuoco è sul monte. Tutte le maschere salgono la montagna, su cui ci sono un ovile e una capanna, e – arrivate alla capanna – tolgono la maschera; altro non sono che uomini di potere. Tutti facciamo una parte che non avremmo dovuto fare e quindi siamo in colpa e ci togliamo la maschera. Il fuoco indica che il male va bruciato, è un altro modo di dire “perdono”. Io ho rivisto Ybris un paio di anni fa nelle Marche e mi è sembrato migliorato. Le maschere sono il potere, non sono i folletti. Anche la scena dell’esame di maturità devi vederla nella soggettiva di Gavino: alla fine gli esaminatori stessi si rendono conto che sono mascherati, non hanno la maschera con cui li vede Gavino, ma sono consapevoli che hanno una maschera e che sono tutte balle quelle che raccontano. È un film molto complicato.
Si tratta di un film altamente simbolico che va sicuramente decifrato. Mi ha ricordato il «cinema di poesia» di Pasolini, per certi aspetti. Per lui il cinema doveva avere una forza delle immagini pre-grammaticale, tipica dell’animalesco e della natura; e poi anche nel cinema pasoliniano è evidente l’aspetto simbolico. Però la parola hybris appare anche in Lingua di falce…
Ybris è in diretta connessione con la cultura pastorale. Siccome Pasolini era una persona molto istintiva e molto intelligente, magari c’è qualcosa, se tu lo vedi. Ma è difficile, perché Ybris è più omerico che pasoliniano: Pasolini non l’avevo nemmeno letto. Sicuramente, mi sono studiato la parola hybris per qualche mese, prima di capire bene. Mi sono documentato su cosa volesse dire per Omero e per la letteratura greca. Prima era una parola molto bella, ma una volta codificata ha assunto la latitudine semantica che Omero le ha dato, poi si è diversificata secondo la volontà del potere. Il Creonte c’è sempre, è lui soprattutto che la pronuncia nella tragedia di Sofocle. In questo caso, però, è Gavino Ledda. Hybris per me è la forza della natura che si sprigiona, infatti si dice “natura lussureggiante”, mentre per Omero era la protervia dell’uomo nei confronti degli dèi. Prima di Omero, la parola hybris voleva dire la “lussuria della natura”. Una volta nati il potere e la scrittura, il poeta ha avuto paura e ha voluto indicare la tracotanza contro il potere e contro gli dèi. È brutto che la si veda così, io ho voluto sfatare ciò.
Che cosa rappresenta invece per te l’espressione «lingua di falce», anche in opposizione a quello che chiami il «linguaggio della scienza»?
Lingua di falce è un bel titolo, che voleva dire la “lingua degli strumenti”. È un elogio allo strumento che ha fatto del bene all’uomo, in questo caso la falce, ma la falce non è sola. Mio padre mi ha trasmesso di più altri strumenti dell’agricoltura, come la zappa, la roncola, il piccone, però la falce è più significativa. Una volta c’è stata la falce con il martello: questi strumenti, che non avevano nessuna colpa, hanno voluto dire altro tramite queste bandiere. Anche la scrittura è una falce che miete.
Sono felice che l’editore abbia poi accettato la soluzione “medaglione-sintesi di autore”: un concetto che mi avevano spiegato i commilitoni a Pisa nel 1960-1961, quando iniziavo a leggere I promessi sposi. Il medaglione d’autore indica il cuore dell’opera, nei Promessi sposi è la monaca di Monza. Non avrei mai pensato di recuperare questo concetto. Il medaglione inserito in questo libro nasce da un mio disegno, che dà sfogo alla fantasia dell’autore ed è figlio del linguaggio che inseguo da trentacinque anni: un linguaggio fluens-patens. La lingua di falce simboleggia un dubbio curioso, spiraliforme, che esce, domanda e rientra nel proprio spirito. È una lingua pluridimensionale, così come lo sono le onde elettromagnetiche che vanno in tutte le direzioni. Il Dubbio Curioso vorrebbe rappresentare il dubbio proprio della Conoscenza gainica [da “Gainu”, nome in sardo di Gavino], che, grazie alla Lingua, rientra nella propria coscienza, alimentato dal Mondo, per ricominciare il proprio ciclo, perché morire, proprio, non vorrà mai!
Nel libro parli anche del rapporto tra falce e poesia per il ritmo. Racconti che tuo padre usava recitare versi a memoria, soprattutto in sardo, poi riporti delle ottave, citi Melchiorre Murenu e infine Gavinu Còntene. Per te, che cosa ha rappresentato la poesia sarda prima dell’apprendimento dell’italiano e prima che diventassi scrittore?
Quando facevo il pastore, fino ai diciotto anni, non sapevo che al di là del muro c’erano poeti e scrittori, perché mio padre non mi aveva detto niente. È possibile che alcuni pastori li conoscessero, ma non certo io. Melchiorre Murenu l’ho appreso dal 1962 in poi. Mentre Gavinu Còntene l’ho scoperto prima di partire militare, perché era venuto un signore a servire una giornata agricola a mio padre. Sai, queste cose si facevano; nei libri è più quello che ho omesso che quello che ho messo. Un giorno capitò che un signore di Siligo doveva servire una giornata di lavoro a mio padre e mio padre non c’era. Allora avevo quindici, sedici anni, e il signore mi ha raccontato che a Siligo avevamo un grande poeta, estemporaneo. C’è una grande differenza tra un poeta estemporaneo e un poeta. Non è che fosse Dario Fo: un grandissimo giullare e improvvisatore, che però giocava in teatro con le cose su cui si era preparato molto bene. Questi poeti improvvisatori, invece, facevano una specie di sfida. Mio padre comunque non mi faceva valicare le mura della nostra terra, perché se mi trovava da un’altra parte mi dava una bella surra [“bòtte” in sardo], quindi, se non fosse venuto questo signore a servire questa giornata perché gliela doveva, non lo avrei scoperto.
Mio padre sapeva molti canti della Divina commedia a memoria e perché non me li ha mai detti? Questo non l’ho raccontato nei libri. Secondo me, lui aveva capito che, se a Gavino insegno che esistono i poeti, o che esiste Manzoni o che esiste Petrarca, magari mi sfugge… Quindi meglio tenerlo buono e ignorante. In compenso, mi aveva insegnato la tabellina di Pitagora e il sistema metrico decimale a furor di botte. Evidentemente, mio padre aveva fatto un calcolo molto pragmatico: forse avrà pensato che la matematica servisse a sapere quanto un campo è grande, quanto si deve arare al giorno con un giogo di buoi (un ettaro viene fatto in tre giorni, sono diecimila metri, se lo fai sei un bravo massaio). Quello che non faceva parte del lavoro non me l’ha mai insegnato. Era tutto nascosto. La poesia era pericolosa, e anche la storia.
Quindi tuo padre, la tua famiglia o i tuoi fratelli non ti hanno aiutato nemmeno successivamente per gli studi e per il trasferimento a Roma?
Era un egoista mio padre, mi ha fregato. Nel 1965 sono andato trenta giorni a mietere e non mi ha dato una lira. Era terribile. E dico “terribile”, perché io sono buono, perdono, però mio padre lì ha sbagliato. È venuto San Vincenzo e non avevo una lira in tasca, solo mia madre mi dava qualcosa: cento lire, con cui allora potevi comprare un litro di benzina. Io, in effetti, non ho fratelli, perché ero una specie di fiera. Non so come chiamarmi, non certo una donnola o un leone, un uomo abbastanza agreste, selvatico. Nel 1945 mio padre mi strappa dalla scuola e sto quattro anni in campagna sempre solo, fino al 1949. Quei quattro anni mi hanno diversificato non solo dai miei fratelli, ma anche da tutti i bambini.
E come mai i tuoi fratelli non li aveva portati, se posso chiederlo?
Io sono il più grande, loro li porta nel 1949. Però quattro anni di divagamento ferino hanno allontanato me dai miei fratelli. Non ho fratelli e famiglia perché non abbiamo mai familiarizzato. Io sono diverso da tutti gli altri uomini, si può dire. Per fortuna ogni tanto faccio amicizia, però sono diverso da un altro uomo. Non voglio rievocare la teoria dell’imprinting e l’etologia, però evidentemente c’entrano.
Ti capisco. L’ultima domanda che voglio porti ha proprio a che fare con questo. In Isola aperta ho sostenuto che ognuno di noi è un’isola, che non deve rimanere però chiusa in se stessa, ma ferirsi e aprirsi all’altro per connettersi in un “sogno di arcipelaghi”. E questo mi sembra che possa descrivere anche quello che hai fatto con la tua scrittura, perché ti sei aperto all’altro per un bisogno di connessione e conoscenza. Tu pensi di essere un’isola, come uomo e come letterato? Con quali autori o artisti della storia dell’umanità pensi di sentirti in dialogo?
Quando studiavo potevo essere connesso a Omero, a Dante, forse ai tragici (a Sofocle) – ma Omero se li mangia tutti! Di Omero preferisco l’Odissea, di Dante mi piaceva l’Inferno, poi ho letto I promessi sposi molto bene. In Alfieri riconoscevo una certa forza, soprattutto nel Saul, ma non mi piaceva come scriveva. Insomma, io sono un’isola, o forse di più, un nuraghe. A me come scrivono gli altri non piace, sono diverso e molto. Ho girato Ybris perché non mi piaceva più nemmeno scrivere come scrivevo, infatti Lingua di falce avrebbe dovuto essere l’ultimo libro per me. Poi ho trovato un nuovo modo di scrivere, vent’anni dopo, con Aurum tellus, anche se non ero del tutto soddisfatto. I cimenti dell’agnello erano ancora un’altra prova. E poi dal 1998 sto scrivendo una nuova opera che è una modulazione di Padre padrone. La società che noi abbiamo vissuto e che ho conosciuto io è “padre padrone”: oggi se ascolti il giornale radio, se senti la politica, ti rendi conto che questo “padre padrone” è più attuale di prima. Se modulo “padre padrone” posso cominciare la storia molto prima di quando ho scritto Padre padrone. Con la modulazione puoi andare dove vuoi. Quando moduli, l’arco narrativo è quello che vuoi tu. Io per “Padre padrone modulato” considero la civiltà dell’uomo. Secondo me, il “padre padrone” è nato molto prima dell’homo sapiens, anche nel Neanderthal c’era già il potere, in un certo senso. Questo non lo posso affermare con sicurezza perché non sono un paleontologo, però nel Sapiens c’è sicuramente, quindi “padre padrone” è un personaggio che ha duecentomila anni. Il vegetale si accontenta delle radici, l’animale si accontenta dello stomaco, metaforicamente. L’uomo no. Ha inventato il potere.
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Sandro Russo
26 Giugno 2025 at 06:31
Alcune informazioni (cinefile) di base su alcuni dei libri e film citati nell’articolo (da Wikipedia, ibidem)
Padre padrone – è un film del 1977 scritto e diretto da Paolo e Vittorio Taviani, liberamente tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di Gavino Ledda. La vicenda, ambientata in Sardegna, segue il riscatto d’un giovane pastore dal dispotico capofamiglia (Omero Antonutti interpreta Efisio Ledda) che, per necessità, lo strappò alla scuola da bambino lasciandolo analfabeta sino all’età di vent’anni.
Considerato il capolavoro dei fratelli Taviani e una delle opere più rappresentative del cinema italiano degli anni settanta, grazie anche al realismo delle immagini e al notevole uso del suono. È una pellicola d’ispirazione poetica e di considerevole impatto visivo.
Inizialmente concepito come sceneggiato tv, venne presentato al 30º Festival di Cannes dove si aggiudicò la Palma d’oro e il Premio della critica internazionale FIPRESCI.
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Ybris è un film del 1984 diretto ed interpretato da Gavino Ledda.
Trama
Lo scrittore-regista ritorna nei suoi luoghi d’origine, ma viene trattato dai suoi compaesani come fosse un estraneo. Ammalatosi d’ulcera, viene preso da attacchi di delirio durante i quali riceverà le apparizioni rispettivamente degli Amuntadores, folletti della tradizione sarda (che attribuiranno la sua malattia al fatto di essersi allontanato dalle sue tradizioni natie), dell’amico Leonardo, da lui trasfigurato in Leonardo da Vinci, e della dea Atena. Alla fine riuscirà a ritrovare se stesso.
Produzione
Tratto dal romanzo Lingua di falce dello stesso Ledda e prodotto da Raitre, fu realizzato in due versioni: una cinematografica da 124 minuti ed un’altra televisiva lunga 184 minuti.
È stato presentato alla 41ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e all’Annecy Cinéma Italien.