di Sandro Russo
per la prima parte, di Marco Màdana Rufo Mansur, leggi qui
Sarà che Marco offuscato dalla sua lunga frequentazione e passione per l’India fa lo stesso errore di certi ponzesi trapiantati in America che quando tornano ricordano sempre la Ponza di quando sono partiti loro, e fanno fatica a comprendere che le cose sono cambiate, che Ponza non è più la stessa, si è arricchita e ha fatto propria anche l’esperienza di altri paesi; grazie alle contaminazioni propiziate dai mass media, dal turismo internazionale e dai viaggi; più recentemente da internet e dai social, perfino da Ponzaracconta [di Marco Màdana e più in generale di esperienze di occidentali in India, abbiamo scritto qui, sul sito: “Homo occidentalis in Asia“].
Per tornare al campo botanico che stavamo trattando, non è da ora che le piante citate – le tuberose, Jacaranda e Plumeria – fanno parte della nostra cultura e dei nostri ricordi. Abbiamo viaggiato tanto, noi e le piante che sono delle grandi viaggiatrici per definizione e ora che il clima sta cambiando – nel corso di un paio di generazioni, e questo è impressionante – molte piante, prima ‘tropicali’, hanno preso dimora anche qui in Italia.
Per un caso singolare, le piante citate nell’articolo precedente (sui profumi) sono tutte “furastere”, come chiamano a Ponza le essenze non autoctone del bacino del Mediterraneo. Si fa però comunemente l’errore di considerare “nostrane” anche piante come i fichidindia e l’agave, che benché perfettamente acclimatate da noi e da secoli parte del paesaggio ponzese, sono di origine sudamericana.
Con le tuberose, il mio primo incontro è stato attraverso zia Olga, pollice verde e genio benefico di famiglia, per essere tra le sue piante preferite. Che di conseguenza sono diventate anche le mie (preferite). Ne ho scritto già nel giugno 2011, quattordici anni fa, agli inizi del sito: “Passioni botaniche ponzesi (6). Le piante rare di zia Olga“. Generosa com’era, zia ne elargiva – “senza fini di lucro”, in tempi in cui certo non si nuotava nell’oro – per candidi e profumati bouquets da sposa, quando l’evento coincideva con la fioritura (tardo estiva).
Di origine sudamericana (Messico) le tuberose – Polianthes tuberosa, pianta perenne della famiglia delle Asparagaceae, sottofamiglia Agavoideae -; le conoscevo già quindi, quando le ho ritrovate in uno dei mercati di fiori più ricchi che abbia mai visto, a Chichicastenango in Guatemala, in un avventuroso viaggio degli anni ’80. Ricordo di aver pensato allora al profluvio e alla ricchezza di fiori che c’erano – tanti ne vendevano e anche tanti ne compravano -, pur in un paese povero. Quindi dovevano essere considerati importanti, quasi quanto il cibo!
Il mercato dei fiori di Chichicastenango (foto dal web)
Sempre sul profumo della tuberosa – ma questa è una cosa che ho letto, non un’esperienza diretta – la pianta fu importata dagli spagnoli in Europa, intorno al 1500, e in breve tempo riscosse un successo ‘esplosivo’ tra gli appassionati di giardinaggio dell’epoca. I suoi fiori e il loro forte aroma fecero loro guadagnare un posto nei giardini lunari, i giardini notturni ricchi di fiori che profumavano di notte, come appunto quelli della Tuberosa. Leggi sul sito “Le mie regine della notte“ e una monografia preparata per “O”, il magazine di Omero, Scuola di Scrittura: Sandro Russo Omero. Le piante e la notte.pdf .
Le tuberose erano particolarmente apprezzate alla corte di Luigi XIV di Francia che ne fece piantare a centinaia nelle aiuole del Grand Trianon di Versailles. La regina, Maria Antonietta, usava un profumo chiamato Sillage de la Reine o Parfum de Trianon, che conteneva tuberosa, fiori d’arancio, sandalo, gelsomino, iris e cedro (sillage – scia). Peccato che una testa così profumata sia dovuta rotolare nel cesto con le altre, al tempo crudele della Rivoluzione Francese.
Jacaranda lato stradina, su una siepe di Eleagnus
Qualcosa della Jacaranda mimosaefolia, anch’essa citata nell’articolo precedente perché le mie diverse piante sono fiorite proprio in questi giorni, qui al casale ai Castelli, famoso Jacaranda’s Center del basso Lazio.
La decana venne in forma di seme proprio da quel viaggio, in Costarica, Guatemala, Routa Maya. Crebbe prosperò fiorì e ci diede tanta gioia ad ogni mese di giugno fino a morire quasi in un inverno crudele di una decina di anni fa. Ma seppur minata alla base e con la corteccia in parte esfoliata, “ricacciò” a metà tronco e di nuovo fiorisce. Mentre le sue figlie prosperano ovunque. Si sarà capito che quando una pianta mi piace la metto dappertutto!
La più vecchia delle jacarande del casale, che svettava tra il verde sottostante
Le traversie successive della vecchia Jacaranda che malgrado tutto è tornata a fiorire; benché il tronco principale sia seccato, ha ripreso a vegetare da sotto; ma il piede è irrimediabilmente compromesso
Altre jacarande più giovani, sparse per il casale. Le sfumature di colore, dal viola al blu – stesso iPhone usato per fotografare – dipendono dalla luce nelle diverse ore del giorno. C’è anche da dire che le Jacaranda non sono profumate: i profumi più intensi sono appannaggio dei fiori bianchi a fioritura notturna, che utilizzano questo mezzo, e non i colori, per attirare dli insetti impollinatori
Infine le Plumeria, vista per la prima volta un Africa, durante il mio periodo di insegnamento presso l’Università Nazionale Somala a Mogadiscio, raccontata qui: Viaggi (5). Mal d’Africa (seconda parte).
Poi la sono andata a cercare (e l’ho trovata) in tutti i miei viaggi in Sicilia, dove la chiamano frangipane (dal famoso profumiere Frangipani che grande successo ebbe nella Francia del ‘700). In Sicilia la chiamano anche “pianta dei gusci d’uovo”, per la consuetudine di coprirne d’inverno gli apici di foglie tenere, a mo’ di protezione contro in freddo.
Portata qui ai Castelli, due piantine piccole, appena radicate, tenute un serra d’inverno, hanno fatto una vita stenta, hanno preso la cocciniglia e il ragnetto rosso, non hanno mai fatto foglie nuove. Alla fine si sono estinte per abbandono, sconsigliandomi da allora in poi ad usare la serra; tanto più che cominciavo a frequentare lo Sri-Lanka dove le piante che qui dovevo pregare per far crescere, vegetavano spontaneamente… le orchidee legate agli alberi con un filo di fibra di cocco (lanu), le stesse Plumerie di cui i muratori che costruivano la casa avevano messo gli zeppi per terra, che erano ben presti diventati il viale della Araliye, dal profumo soave e anche di vari colori (ma la più profumata è quella classica, bianca con l’interno del fiore che sfuma al giallo).
In Sri-Lanka e anche nel sul dell’India, in Kerala (stessa etnia, stessa cultura) la tengono in gran conto, come “fiore dei templi” (e anche dei cimiteri). Sarà per questo che le plumerie del viale le ho dovute sottrarre alla furia distruttrice della mamma di Domenico – la signora Luisa, che il Signore l’abbia in gloria – , che si era fissata che “portavano male” e le voleva distruggere con una specie di roncola di uso locale (vissikette).
Plumeria rubra: diverse sfumature e commistioni di colore tra bianco giallo rosa e rosso
Una plumeria lungo il vialetto della casa in Sri Lanka si vede proprio sopra le biciclette. In numero maggiore sono sul lato opposto (vedi foto successiva). Dal raccontino “Il piccolo Buddha“
Plumerie fiorite sul lato dx del vialetto, guardando la casa
Naturalmente, vivendo in Sri-Lanka, avevamo preso anche noi da quel popolo gentile – il 70 % della popolazione è buddhista – l’abitudine di tenere i fiori di Plumeria in ciotole con d’acqua qua e là per casa
