Cinema - Filmati

Psycho, ovvero la paura che non passa mai

di Gianni Sarro

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Partiamo da una notizia di cronaca. Ho letto su la Repubblica che oggi 16 giugno è l’anniversario dei 65 anni dell’uscita del film Psycho nelle sale americane. Di qui sentire Gianni Sarro e chiedergli di condensare in una pagina quello che avevamo letto e detto del film quando l’abbiamo fatto a lezione, è stato tutt’uno.
Sandro Russo

Almanacco di oggi, 16 giugno: l’eredità di Psycho
di Luigi Gaetani da la Repubblica

Sessantacinque anni fa due sale newyorchesi ospitarono l’anteprima del nuovo film di Hitchcock. Fu un trionfo e cambiò la storia del cinema
Era il 16 giugno 1960, sessantacinque anni fa. Due sale newyorchesi ospitavano l’anteprima del nuovo film di Hitchcock. Poco o nulla si sapeva della trama: niente proiezioni per la stampa, anche i critici erano all’oscuro. Per la prima volta negli Stati Uniti, il regista aveva imposto il “no late admission”: non si poteva entrare dopo l’inizio dello spettacolo, il film andava visto dall’inizio.
Nonostante le recensioni miste, Psycho fu un successo immediato. In molti lo ritengono il primo film “Slasher” (in cui un maniaco uccide in modo truculento con armi da taglio). E in generale nessuno mette in dubbio che dalle lugubri stanze del Bates Motel sia scaturita una nuova era del cinema. Così come una nuova vita per la star Janet Leigh. Girando la scena clou del film rimase profondamente turbata: molti anni più tardi dichiarò che dopo Psycho non aveva mai più fatto una doccia. Aggiungendo, a scanso di equivoci, che faceva “bagni, solo bagni”

Il libro fondamentale di François Truffaut su Hitchcock (1966) che ci ha aperto gli occhi sull’originalità e la grandezza del regista americano (1). Qui la copertina delle edizioni Il Saggiatore, Milano; 2008-2014, p. 311

Alfred Hitchcock e l’invenzione del cinema moderno
di Gianni Sarro

Nel 1960 Alfred Hitchcock gira Psycho, un film apparentemente di genere ma, in realtà, un’opera spartiacque che cambia per sempre il modo di fare e di vedere il cinema. Un film moderno pensato per lo spettatore classico, un thriller che non dà risposte ma moltiplica domande, che non chiude i conti ma li apre. Oggi, a oltre sessant’anni dall’uscita, Psycho continua a inquietare non per ciò che mostra, ma per quello che suggerisce, lasciandoci in balia di fantasmi che sono nostri, del regista e dell’intera umanità.

La nuova suspence secondo Hitchcock
Hitchcock reinventa la suspense: per gran parte del film sappiamo che c’è una donna armata nella casa dei Bates, ma non sappiamo quando colpirà. È una suspense fine a sé stessa, che non porta a una risoluzione rassicurante. Non c’è l’eroe che ristabilisce l’ordine. Non c’è equilibrio da restaurare. Il nemico non arriva più dall’esterno, ma è radicato nella psiche, nell’inconscio, nella società.

Lo spettatore è destabilizzato: dopo 45 minuti, la protagonista Marion Crane viene brutalmente uccisa nella celeberrima scena della doccia. A quel punto, il centro narrativo scompare, e lo spettatore è costretto a riorientarsi, a rimettere tutto in discussione. Non ci si può più fidare del racconto. Ogni personaggio può morire. Nulla è garantito. È la fine dell’innocenza cinematografica.

La scena della doccia: un vortice nella mente
Un minuto di terrore puro: settanta inquadrature, montaggio frenetico, musica stridente di Bernard Herrmann. Il coltello non tocca mai la carne, eppure la violenza è insostenibile. La censura impone dei limiti, ma Hitchcock li aggira con intelligenza: il corpo nudo non si mostra mai del tutto, suscitando nello spettatore un desiderio voyeuristico e, insieme, un senso di colpa. È proprio il senso di colpa — personale, culturale, collettivo — che Hitch porta in superficie.

Il movimento finale della macchina da presa, che dallo scarico della doccia passa all’occhio morto di Marion, costruisce un’analogia visiva: la spirale dell’acqua diventa simbolo della spirale negativa, del vortice drammatico in cui è precipitata la protagonista. Il corpo di Marion non è solo un corpo, ma un’idea, un desiderio proibito, una colpa da punire.

Un film senza eroi, senza centro, senza redenzione
Psycho è un film corale, ma ogni personaggio è incompiuto. Il furto di Marion, la sua relazione con Sam, l’indagine di Abrogast, persino il finale con Lila: nulla trova una vera conclusione. L’unica spiegazione razionale — la psicoanalisi tirata in ballo nel finale — non convince e non consola. Anzi, sottolinea il caos, la mancanza, l’irrimediabile.

Hitchcock nega il lieto fine. La dissolvenza incrociata che porta dalla casa al lago, dove viene recuperata l’auto di Marion, è una beffa: ci ricorda che il pericolo non è scomparso, ma solo sommerso, pronto a riemergere. La cantina diventa metafora dell’inconscio, l’ultimo rifugio di Norman/Madre, e quando lui guarda in macchina con un sorriso inquietante, ci ricorda che il male è dentro di noi.

Il vero orrore: l’identificazione con Norman
Il capolavoro di Hitchcock sta nel capovolgere l’identificazione: lo spettatore parteggiava per Marion, poi per Norman. Lo spia, lo accompagna, lo protegge. L’asimmetria informativa tra pubblico e personaggi — noi sappiamo cose che gli altri ignorano — innesca una partecipazione emotiva fortissima. Solidale e, insieme, colpevole.
Il MacGuffin (2) iniziale — i soldi rubati — svanisce presto. È solo un’esca. Il vero tema è la psiche, la scissione tra apparenza e pulsione, tra coscienza e desiderio. Un crimine ne genera un altro, ma non per razionalità investigativa: piuttosto per effetto domino morale. Il disordine non nasce da un villain esterno, ma da dentro: dalle nevrosi, dalle colpe, dalle paure. Non ci si può salvare da sé stessi.

Da Intrigo internazionale a Psycho: la svolta
Con Intrigo internazionale, Hitchcock aveva portato a sintesi il suo cinema classico, fatto di ritmo, ironia, mistero e romanticismo. Con Psycho abbandona quel mondo. Non c’è più glamour, né ironia. L’approccio è spietato, quasi crudele. Hitchcock scopre la potenza del genere che aveva sempre disprezzato — il mystery — perché ora può usarlo come maschera per raccontare l’inconscio, la psicopatologia, l’indicibile.

Non a caso, identifichiamo sempre il nemico sbagliato: la madre, Norman, Marion. Alla fine, l’unica certezza è che il pericolo esiste, ma non sappiamo da dove verrà. Psycho è un film senza centro, come il suo protagonista, come il mondo che descrive. Nessun personaggio riesce a portare a termine il proprio arco narrativo. Tutto resta sospeso.

Dopo la doccia, nulla è più come prima
L’omicidio improvviso di Marion rivoluziona il rapporto spettatore-film. Ci obbliga a essere vigili, attivi, diffidenti. Innesca una raffica di domande: chi è la madre? Abrogast sopravviverà? Il furto verrà scoperto? Sam e Lila si salveranno? A tutte queste domande Hitchcock dà risposte parziali, fuorvianti, o nessuna risposta. Il vero obiettivo è lasciare lo spettatore dentro una spirale — proprio come Marion nella doccia — di ansia, tensione e paura.

Psycho è il ponte tra il cinema classico e quello moderno. È il momento in cui il cinema diventa consapevole di sé, dei propri limiti e poteri. Hitchcock vola verso il nuovo cinema, ma con lo sguardo sempre rivolto allo spettatore classico, che non può più tornare indietro.


Note
(da Wikipedia, ibidem, raccolte da Sandro Russo)

(1) – Il cinema secondo Hitchcock (Le cinéma selon Alfred Hitchcock) è un libro di François Truffaut pubblicato in Francia nel 1966 dalle Éditions Robert Laffont. Frutto delle conversazioni intrattenute dal regista francese col regista britannico sulla filmografia di Hitchcock nel corso di una settimana nell’agosto 1962.
Prima edizione italiana: Il cinema secondo Hitchcock, prefazione all’edizione italiana di Francois Truffaut, trad. Giuseppe Ferrari e Francesco Pititto, Parma, Pratiche Editrice, 1977, p. 291.
Dopo la morte di Hitchcock il 29 aprile 1980, Truffaut scrisse una nuova prefazione e aggiunse un capitolo finale sugli ultimi film del Maestro della «suspense» – miscelando analisi e aneddoti – pubblicati nel 1984.

(2) – Il MacGuffin (o anche McGuffin) è un espediente narrativo, ad esempio un oggetto o un evento, utilizzato in un’opera di finzione al fine di fornire una motivazione alle azioni dei personaggi e allo svolgersi della trama che ha per i personaggi un’importanza fondamentale ma è in realtà privo di un reale significato per lo spettatore. Il termine venne probabilmente coniato negli anni trenta dallo sceneggiatore Angus MacPhail, amico di Alfred Hitchcock, che fu il primo a usarlo espressamente nei suoi film.

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