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Di rientro da un lungo ritiro di studi e pratiche spirituali, valle del Kashmir, nell’antica città di Srinagar, tutta appollaiata sulle sponde e fin dentro le acque del lago Dal ; quella città che era considerata il Diamante della Corona d’Inghilterra, Srinagar, la città divinamente bella. Luogo di giardini incantevoli, disegnati da siepi di piante odorose e roseti profumati, circondati dai più misteriosi e rari fiori esotici.
Avevo riflettuto su come fosse in declino la mitologica flora indiana, ansimante, disordinata, ed osservata e quindi lodata poco, dal momento che gli indiani non sono dotati di un’estetica pubblica, civile, armoniosa. Di tutto quello che è al di fuori della propria casa e famiglia, loro declinano la cura a qualche misteriosa forza di trasformazione divina, che segue gli ordini del Fato e della Fortuna.
Qui invece, nella nostra penisola italica, la natura e l’uomo vivono in un perfetto equilibrio, e non vi è balcone o giardino che non sia anche esercizio di amore e cure. Da uno di questi giardini incantevoli, quello di Sandro, nei pressi di Lanuvio, osservo la natura che si svolge come tappeti srotolati lungo una collina morbida, come seni di donna, e s’invola lo sguardo, da qui fino al mare, sorvolando le innumerevoli opere di verdi quadri e colori floreali sfavillanti, in queste terre che vanno dai Castelli romani fino ai lidi tirrenici, vicinissimi allo sguardo. Roma in mezzo si siede su questo già bellissimo quadro di giardini e macchie di colori arborei, aumentandone il fascino, davanti al quale il Kashmir, le Indie, e il Medio-Oriente impallidiscono.
Jacaranda mimosaefolia, fiorita in questi giorni nell’orto-giardino ai Castelli
Oggi lo comprendo più in profondità, perché questi scenari li avevo lasciati per andare a cercarli, in molti luoghi del mondo, trovandone sempre di incompleti. Oggi che ritorno al casale di Sandro, così impregnato di philia, di amicizia disinteressata, e da qui contemplo questa straordinaria particolarità della nostra natura. Quella di essere mitigata e temperata da un intervento umano sempre discreto, moderato nei gusti, ma sempre pieno di attenzioni. Perché ogni giardino qui è un microcosmo di bellezze inesauribili. Quante bocche dovrei avere per citare ognuna delle perle floreali che si nascondono in più o meno bell’evidenza, nei giardini di ogni casa?
Avvolto in questi pensieri e in queste visioni, passeggio per il casale, suono sotto un pergolato di kiwi, parlo d’amore con una donna, e l’occhio mi si posa su una pianta ben nota in Oriente, ma insolita qui. È il parijata – Polianthes tuberosa, conosciuta in Italia come tuberosa – ndr – il piccolo gelsomino a forna di campanella, inebriante di profumo, che le donne indiane usano intrecciare nei capelli ogni mattino. Puoi trovarne raccolti in lunghissime ghirlande, innumerevoli come galassie di stelle, fuori dai templi, e per 50 rupie, gli equivalenti di 50 centesimi, puoi acquistarle per offrirle alla divinità, o alla donna che ami.
Parijata è il fiore che nella mitologia indiana più di tutti evoca la bellezza femminile disinvolta, quella cioè della pastorella che si pettina nel fiume e non della regina sul trono. Parijata è il fiore che Krishna, il seduttore suonatore di flauto, dona alla prima delle sue amanti, Radha, per placare la sua gelosia. È il fiore che incarna le dolcezze del cuore, il profumo che alleggerisce l’animo e lo dispone all’amore. Nelle notti di plenilunio, ancora oggi in India, i giovani e le vecchiette, escono assieme a raccogliere boccioli di fiori profumati, e questa caccia notturna diventa così l’occasione per gli anziani di iniziare i fanciulli ai misteri dell’amore, celati nelle innumerevoli storie mitologiche che in queste notti si raccontano.
Saluto questo parijata avventuriero, che Sandro ha portato qui in chissà quale maniera.
Mazzi di tuberose in vendita, nei pressi di un tempio, in India
Di profumo in profumo, tra India e Sri-Lanka, arriviamo ad evocare un’altra conoscenza comune. Stavolta è la regina di tutte le fragranze, la sovrana tra i profumi orientali, l’emblema mitico del Sultano fra gli incensi. È il Champa – in singalese Araliya, botan. Plumeria alba , conosciuto in Sicilia come Pomelia o Frangipane, dal nome del famoso profumiere – ndr -, il grande fiore bianco, vellutato, tinto di un giallo acceso al suo interno, emanante un odore impareggiabile, tra la gardenia, la rosa, il gelsomino e la zagara… è speziato, agrumato, sensuale e candido.
È il fiore che ogni Dea indiana porta nei suoi capelli, infilato dietro l’orecchio, perché rappresenta la poesia d’amore, il sussurro dell’amante che sempre suona nei padiglioni dell’amata. Sbriciolando i suoi petali carnosi, si ottiene la polvere con cui si fanno gli incensi più raffinati, quelli, si dice, che sono più graditi alle divinità dei templi e dei cuori. È il fiore il cui profumo si spalma sui piedi degli ospiti, perché la sua fragranza sublima ogni sozzura.
Saluti a voi dunque, Parijata e Champa, ambasciatori di bellezze esotiche, giunti non si sa per quale via nel delizioso giardino di Sandro, in questa terra così antica e raffinata, di eroi e filosofi e sibille e fauni, questa nostra amata terra romanica che siede alla pari con altre, nel simposio delle bellezze terrestri.
Immagine di copertina. Stone balancing con fiore di Plumeria alba, sfondo mare
