un articolo di Gianrico Carofiglio su la Repubblica, proposto da Sandro Russo
Sicurezza e felicità le parole smarrite dalla nostra sinistra
di Gianrico Carofiglio – Da la Repubblica del 14 giugno 2025
- Si può essere progressisti combattendo il crimine in ogni forma senza minimizzare i pericoli delle città, temendo di essere autoritari. Ma per cambiare le cose occorre soprattutto una riserva di allegria
- “L’impegno civile non è una penitenza. Oltre che di rabbia si nutre anche di ironia e bellezza
- “Parlarne non è un atto di ingenuità. A che serve la politica se non a rendere contente le persone?
C’è una parola che, negli ultimi decenni, è stata sequestrata dal libero dibattito pubblico, diventando ostaggio della propaganda di destra. Quella parola è sicurezza. A forza di sentirla urlata nei comizi del peggiore populismo, brandita come arma di divisione e paura, negli anni i progressisti hanno perso di vista il suo significato autentico, subendo una sorta di scippo lessicale in silenzio, quasi con un senso di colpa.
Chiariamo una premessa fondamentale: il resoconto ossessivo di un’invasione in corso, di città allo sbando, di una violenza fuori controllo è semplicemente falso e si sbriciola non appena viene messo a confronto con i dati. Le statistiche ci dicono, infatti, che i reati violenti sono in costante, vistosa diminuzione da anni. Ma il senso di insicurezza avvertito da tanti cittadini è tremendamente reale. Va compreso e rispettato, non trattato con sufficienza; ad esso vanno date delle risposte basate sulla comprensione delle sue vere ragioni, ben diverse da quelle delle manipolazioni populiste. Le sue cause più profonde stanno nelle amministrazioni mal funzionanti, nella sanità sempre più inefficiente e iniqua, nella precarietà del lavoro e delle pensioni, nel logoramento del welfare, nell’ascensore sociale del tutto inceppato, nella giustizia spesso iniqua, nelle periferie invivibili, nella crisi climatica.
Sicurezza è sapere che tuo figlio può andare a scuola senza essere lasciato in un edificio che cade a pezzi. È sapere che un genitore anziano può camminare per strada senza timore. È poter vivere con retribuzioni adeguate, senza essere schiacciati da un imprevisto, da una malattia, da un affitto impossibile da pagare. Sicurezza è un quartiere illuminato e munito di servizi, una casa protetta, un sistema sanitario che funziona. Insomma, non c’è sicurezza senza giustizia sociale. O detta in altri termini: gran parte del senso di insicurezza individuale e collettivo nasce dall’ingiustizia sociale.
Ma per evitare ogni equivoco va detto con forza che la sicurezza non è soltanto questione di servizi pubblici, uguaglianza, coesione sociale. Essa è anche – senza ambiguità – difesa dal crimine, perché proteggere i cittadini e le cittadine da furti, rapine, aggressioni, è un dovere democratico. È profondamente sbagliato rimuovere o minimizzare la questione per paura di sembrare autoritari.
Essere di sinistra non significa essere indulgenti con chi viola la legge, né voltarsi dall’altra parte quando le persone subiscono violenza, sono sottoposte a paure che limitano la loro libertà e la loro dignità. Significa piuttosto pretendere e garantire risposte serie e proporzionate. Risposte che non si affidano a proclami grotteschi e ridicoli (si pensi, solo per fare un esempio fra i tanti, alla promessa della attuale presidente del consiglio: «cercheremo gli scafisti lungo – sic – tutto il globo terraqueo»), ma all’efficacia di norme ben scritte, di una giustizia funzionante e non avvilita da politiche in bilico fra demagogia e incompetenza.
Dunque, sicurezza significa combattere il crimine in tutte le sue forme. Quelle antiche e quelle modernissime che stanno sul confine opaco fra economia legale e illegale, tra impresa e mafie, tra finanza e riciclaggio. Affrontare le metamorfosi del crimine è una delle direttrici per il perseguimento dell’uguaglianza, dunque una priorità politica per la sinistra moderna.
Peraltro, la sicurezza è anche qualcosa di più ampio e profondo che va oltre i confini dei nostri quartieri, delle nostre città, delle nazioni. La sicurezza dei popoli, che non si costruisce con le armi, ma con la capacità di negoziare, di parlare, di cercare – sempre, ostinatamente – compromessi onorevoli e intelligenti.
In un mondo segnato da conflitti ibridi, da minacce asimmetriche, da guerre che passano per i mercati e per i cavi della rete, il futuro si costruisce, a ogni livello, con la tenace pazienza del dialogo, con la lungimiranza delle alleanze, con la forza silenziosa delle buone ragioni e dei buoni argomenti.
Come abbiamo visto per la nozione (manomessa, oggetto di appropriazione indebita) di sicurezza, le parole hanno spesso incrostazioni ideologiche che ne svuotano o ne alterano i significati. C’è timore a nominare le cose, o forse manca la necessaria fantasia, l’indispensabile capacità di immaginare. Sta di fatto che un altro fondamentale concetto della costellazione ideale progressista rimane fuori – con rare, sporadiche eccezioni – dal lessico e dalla discussione politica della sinistra: felicità. In molti pensano che parlarne sia quasi un atto di naïveté politica.
Accettiamo il rischio: se la politica non serve, almeno in parte, a rendere più felici le persone, a che cosa serve? Felicità, ovviamente, non vuol dire appagamento permanente o banale evasione. È, più semplicemente, la possibilità di una vita degna: avere tempo, avere legami. Poter scegliere. È una forma di quieta pienezza, magari intermittente, ma possibile e che matura con il senso di comunità.
Non è un caso che nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti, uno dei testi fondativi della modernità democratica, sia scritto che tra i diritti inalienabili vi sono «la vita, la libertà e la ricerca della felicità» (the pursuit of happiness).
Una sinistra che non si pone la questione della felicità – concreta, praticabile, umana, non retorica – ha smesso di parlare davvero alle persone e rischia di ridursi a una cupa burocrazia del risentimento.
«Non crediate che occorra essere tristi per essere militanti» scrive Michel Foucault nella sua Introduzione alla vita non fascista (gran titolo, a proposito). L’impegno civile e politico non è una penitenza, non è solo rabbia, pur nutrendosi di una sana indignazione,ma anche bellezza, ironia, leggerezza.
Per cambiare le cose occorre una riserva di allegria e la cupezza, definitivamente, non è una virtù politica. Siamo pochi a pensarla così? Siamo ingenui? Il mondo è così com’è, e rassegnarsi è una forma di maturità? Forse. O forse no.
Le rivoluzioni e i grandi cambiamenti sono sempre cominciati nei piccoli gruppi. Non con la forza dei numeri (all’inizio almeno), ma con quella dell’ostinazione visionaria rivolta al futuro. Il gruppo di attivisti noti come Freedom Riders nel 1961 sfidò la segregazione razziale negli Stati Uniti viaggiando in autobus attraverso il Sud. Subirono aggressioni, arresti, minacce. Ma cambiarono la percezione pubblica della giustizia razziale e contribuirono al Civil Rights Act del 1964.
Negli anni bui della dittatura argentina, le Madres de Plaza de Mayo, poche donne con i fazzoletti bianchi, madri appunto dei desaparecidos, sfidarono un feroce regime militare con la sola forza della loro presenza. All’inizio furono ignorate, poi divennero un simbolo della resistenza civile, e la loro azione aprì una crepa irreversibile nel muro della paura.
E ancora: negli anni ’70, in un remoto villaggio indiano, un gruppo di donne si oppose al disboscamento delle foreste con un atto elementare e potente: abbracciavano gli alberi con i propri corpi. Era l’inizio del movimento Chipko, una protesta non violenta nata dal basso contro la devastazione ambientale. Quelle donne, prive di qualsiasi potere, riuscirono a bloccare l’abbattimento delle piante e a cambiare le politiche forestali del governo indiano. Un piccolo gruppo, all’inizio inascoltato e marginale, diventò così un simbolo planetario dell’ecologismo attivo e della cittadinanza resistente.
Lo ha detto Margaret Mead (*) in un modo sobrio ed emozionante: «Non dubitate mai che un piccolo gruppo di persone coscienti e impegnate possa cambiare il mondo. In verità, è l’unica cosa che sia mai accaduta».
[Gianrico Carofiglio, da la Repubblica del 14 giugno 2025]
Immagine di copertina. Dall’articolo di Repubblica (Ikon images)
Note
(*) – Margaret Mead, grande antropologa statunitense (1901-1978); ricordata per i suoi studi sulle convenzioni sessuali nel sud-est asiatico, che ebbero grande influenza sulla rivoluzione sessuale degli anni sessanta. Sul sito: leggi qui
