di Teresa Denurra
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La corrispondenza con Teresa Denurra da Sassari, amica per fortunose vicende, mia e di Ponzaracconta, si arricchisce di sempre nuove sfaccettature; spesso in risonanza con articoli che legge sul sito.
Mi ha scritto di recente Teresa:
“Mentre leggevo le tue due puntate de “La casa e il tempo”, per puro caso nello stereo stava andando “Avec le temps”, un’esecuzione jazz ispirata a un brano famoso di Leo Ferré, eseguito in modo toccante per bandoneon e piano dallo stra-nominato Di Bonaventura e da Giovanni Guidi, pianista di grande sensibilità. Giusta colonna sonora. Con inevitabile effetto associativo, diciamo maieutico, ho sentito il bisogno di scriverci su, per fissare i ricordi relativi a una casa a cui sono stata molto legata e alla prima volta in cui nella mia vita è passata la potenza devastatrice della demenza di una persona cara”.
Sandro Russo
Rosita
La casa di Rosita
Rosita era mia zia, classe 1904, sorella di mamma. Bellezza mediterranea di quei tempi, lettrice accanita di libri, nuotatrice e tuffatrice perfetta, ciclista spericolata e ginocchia sbucciate per andare in campagna quando le macchine erano ancora destinate all’élite, poi patente tardiva e guida, anche qui spericolata e spesso maldestra, di una seicento Fiat. Sposata con un ferroviere, era casalinga e non aveva avuto figli.
Verso gli anni sessanta era andata a vivere in una sorta di villetta con giardino in città.
Da bambina, in quella casa ci ho trascorso giornate intere, ci ho giocato da sola, con Rosita che inventava di tutto o con un mio coetaneo con cui poi ci siamo ritrovati a studiare insieme all’università. Il pranzo da Rosita era sempre molto buono: mangiavo avidamente carne arrostita sulla graticola che a casa mia, cucinata in maniera praticamente identica, sputavo sotto il tavolo pensando che nessuno si accorgesse.
Si giocava e si viveva praticamente sempre, salvo pioggia a dirotto o freddo insostenibile, in giardino.
Nel giardino c’erano alberi da frutto, ricordo limoni, mandarini, nespoli, forse anche peschi e poi c’erano fiori, tanti, soprattutto rose che Rosita seguiva, potava e tutto il resto. Nella cancellata c’erano la bouganville e la bignonia, vicino a una fontanella il papiro, nel patio su cui si arrivava dalla cucina un ficus grande come un albero, che lei propagava per margotta e io seguivo i vari passaggi pensando: “Questa volta non riesce”. Riusciva sempre e tutta la famiglia aveva un ficus in casa. Ogni anno c’era anche il rito della preparazione dei pomodori secchi con risultati perfetti; poi, in un angolo lontano del giardino, c’era la concimaia: tutti i rifiuti organici lì dentro e lei che seguiva con attenzione anche quello e poi usava il concime pronto per le rose e tutto il resto.
La casa aveva anche una cantina grande, ho ancora l’odore nel naso; quando mi mandavano giù per prendere qualcosa che magari serviva per cucinare avevo paura del quasi buio che c’era dentro, solo una finestrella sempre aperta, con inferriata e delle scale ripide.
Poco prima di compiere ottant’anni Rosita è rimasta vedova e sola nella casa, rifiutando qualunque tipo di proposta di aiuto o compagnia, carattere spigoloso e indipendente sino al midollo. Ha resistito nella solitudine per nove anni dopo la morte del marito; era praticamente un tutt’uno con la casa, ma soprattutto col giardino. Poi dopo un incidente casalingo che poteva avere una conclusione terribile – ma ne è uscita illesa – la decisione della famiglia che pensa di sapere tutto, a insaputa dell’interessata che cominciava a manifestare qualche lieve segnale di demenza: Rosita non vuole persone a casa, non può stare sola, va trasferita in un pensionato per anziani. E così è stato: con l’inganno io e mia sorella l’abbiamo strappata da casa e giardino dicendole che era solo per poco, per provare. In realtà era un fatto definitivo e Rosita, senza la sua casa e soprattutto senza il suo giardino, è precipitata in pochi giorni: la demenza si è manifestata completamente e senza scampo. Le nostre visite praticamente quotidiane non servivano a nulla.
Nove mesi dopo, in una calda notte d’estate, squilla il telefono a casa mia: Rosita era morta.
La casa è tornata ai proprietari, parenti nostri; lei finché ci è stata, pagava un affitto simbolico, ma ci viveva come se fosse sua; poi è diventata un circolo ricreativo e, dopo, un improbabile ristorante, con arredi e accessori come se fosse un locale da spiaggia, che ha avuto un successo iniziale, poi diminuito sino alla chiusura. Anni dopo dopo la casa col giardino è stata venduta: ruspe in azione, tutto abbattuto, tutto distrutto per costruire un palazzo a sei piani, un parallelepipedo senza fantasia, in classe energetica A.
Ecco, ancora adesso per esempio se ceno pesante o comunque ho un sonno agitato, nei sogni torno quasi sempre in quella casa e in quel giardino. Forse perché, si diceva, somiglio a Rosita nel carattere, anche se ho sempre avuto paura a tuffarmi in quell’acqua turchese che a lei piaceva da morire.
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Letture collegate
La casa e il tempo (prima parte), di Sandro Russo; e seconda parte, con Commenti.
Sull’uscita di scena, uno scritto di Ferdinand Céline, proposto da un altro mio vecchio amico, di Liceo, stavolta, Carlo Secondino:
“Come un vecchio lampione di ricordi all’angolo di una strada dove non passa già quasi più nessuno“
