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Prendere il bus a Roma non è cosa semplice. Io, però, ho imparato a convivere con l’imprevedibilità, e con il 223 ho stretto un patto. Un’intesa tacita: non gli chiedo troppo — niente puntualità svizzera, niente corse contro il tempo — io arrivo per tempo, lo aspetto senza fretta. E lui, in cambio, non mi tradisce mai.
Qualche volta arriva persino in anticipo, come se sapesse che per me non è un viaggio qualunque. Come se intuisse che lo attendo per un motivo importante: andare a trovare mia madre, nella sua nuova residenza, una clinica lungo la via Cassia.
È una situazione nuova, certo. Ma, col tempo, ha trovato un suo equilibrio. È contenta? Non lo so. So solo che non si lamenta — e forse, a novantadue anni, è la più bella delle conquiste. Quando scendiamo in giardino, coglie ancora l’incanto del verde del prato all’inglese, e il cinguettio degli uccelli la rasserena come una melodia gentile.
Quando esco dalla clinica, mi soffermo sempre a osservare un casale che si trova sull’altro lato della strada. Ha l’aria disabitata, ma non abbandonata. Oggi gli ho scattato delle foto. Mi sono persino chiesto se qualcuno, da dietro le persiane ermeticamente chiuse, mi stesse spiando, domandandosi cosa ci trovassi di tanto interessante da fotografare.
Il casale è in buono stato, la vegetazione non ha preso il sopravvento. Alla vista si offre per primo un cancello grigio, senza scrostature. Ha due aperture: una più piccola per i pedoni, l’altra per le auto. L’edificio forma quasi un angolo retto con il cancello, e mi viene il dubbio che, in origine, quest’ultimo non fosse lì. Me lo fa pensare un arco — forse l’ingresso di un patio — visibile in fondo.
C’è un altro dettaglio che mi incuriosisce. Dopo la prima finestra, sulla facciata compare un portoncino, o forse una porta-finestra. Ma non ha scale. Se qualcuno oggi lo aprisse dall’interno, dovrebbe fare un salto nel vuoto. Un altro mistero.
Il casale, pur senza avere un’aria minacciosa, mi richiama alla mente immagini da film horror: La casa dalle finestre che ridono, di Pupi Avati, con la sua provincia padana sospesa e inquietante; oppure Profondo rosso, di Dario Argento, dove una villa molto simile — in aperta campagna — è teatro di un efferato omicidio. Quella villa, tra l’altro, si trova davvero alla Giustiniana, a pochissimi chilometri dal casale davanti alla clinica.
Superato il cancello, torno sulla Cassia. Colpisce il contrasto: da un lato la strada silenziosa immersa nella campagna; dall’altro, la consolare, dove le auto ruggiscono accanite. La devo attraversare senza semaforo, solo con l’aiuto di un passaggio zebrato, sbiadito. Mi avventuro con attenzione, confidando nella mia figura alta, ben visibile — e soprattutto nell’attenzione dei guidatori.
La fermata del 223 è lì, seminascosta tra erba e rovi. Se a mezzogiorno — l’ora in cui torno indietro — cerco un po’ d’ombra, devo chiederla a questo terreno aspro. E chissà… forse, tra i cespugli, si nasconde qualche tana di crotali. Ma è solo un’altra fantasia cinematografica.
