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Nel corso di feste patronali anche nelle località balneari, durante la stagione estiva, s’insediavano “le giostre”. Tutti vi accorrevano. Luci multicolori e intermittenti; musica a tutto volume. Gli abitanti della zona sopportavano di buon grado tale frastuono che interrompeva, per poco tempo, la monotonia di un vivere tranquillo senza troppi scossoni e senza troppi frastuoni di mezzi motorizzati; salvo qualche scuppariello (motoretta) che in fase di accelerazione, senza marmitta o con la marmitta truccata, emetteva un suono assordante e prolungato, per farsi notare e per guadagnare qualche km/h. di velocità in più.
Di norma non c’erano molte attrazioni: la giostra dei cavalli e macchinette colorate e luccicanti per i più piccini, una “ruota panoramica”, qualche tiro a segno, i tozza-tozza (le macchinine a scontro), le sedioline volanti o calci-in-culo con l’immancabile fiocco da prendere a volo e guadagnare così un giro gratis; poi, in seguito, anche i “dischi volanti” con la “mitraglia” per sparare sugli altri dischi e sperare di rimanere l’unico, lì in alto, per guadagnare un altro giro gratis. Alla fine, in genere si rimaneva in due a contendersi il premio. Si pigiava forte sul bottone e si manovrava facendo muovere il disco un po’ di qua ed un po’ di là pensando di centrare l’avversario. Alla fine o si era delusi se il disco scendeva prima dell’altro o si esultava se si rimaneva in aria al di sopra di tutti. Non ho mai capito se si colpisse veramente l’avversario oppure fosse solo un caso. Propendo per la seconda ipotesi.
Divertimento costante erano i tozza-tozza. In genere una banda di ragazzi saliva su di esse dopo avere adocchiato alcune ragazze, ciascuno nella sua macchinina. Non era semplice in quel periodo accompagnarsi con le ragazze e pertanto era un modo come un altro per “incontrarsi” e stabilire con esse una sorta di approccio, seppur particolarmente violento. Si sperava che una volta finiti “i giri” si potesse “ abbordarle” come vecchie conoscenze, in virtù delle risate e delle occhiate che si erano scambiate durante il breve ciclo della corsa. Ancora meglio se, per caso, quelle non scendevano ma restavano per un altro giro. In genere si prendevano di mira e, cercando di scansare quelli che ti venivano incontro, le si rincorreva andandole a tozzare; meglio nell’angoletto laggiù in fondo alla pista: soli soli. Lei ti guardava per un attimo, a volte sott’occhio. Rideva divertita. Quasi quasi incitandoti a ripeterlo di nuovo. Così ricominciava… l’inseguimento. Qualche volta, d’accordo con gli altri della comitiva, le si circondava prendendo di mira la macchinetta: chi da dietro e chi davanti. Cosicché vi era un doppio rinculo. Dall’espressione del viso ti accorgevi che non a tutte piaceva quest’ultimo modo di fare, mentre altre si divertivano un mondo. Comunque erano risate e loro avevano o fingevano anche un po’ di paura. Noi, uomini, dimostravamo la nostra” forza” perché quando si andava a tozzare non si rimaneva seduti in modo statico ma si dava anche un colpo di reni come voler accentuare lo “scontro”.
Misuratore di forza muscolare col martello
Lasciate le macchinine si cercava di poter scambiare qualche parola cominciando per l’appunto dall’esperienza appena trascorsa. Se tutto andava a buon fine o meglio “si attaccava bottone” (come si diceva), l’uomo, alla prima occasione, doveva dimostrare ulteriormente la sua “forza”. L’occasione subito si presentava: era a portata di… mano. La prima era il “sacco della boxe” o punching ball dove si verificava e soprattutto si mostrava alle ragazze (in genere non andavano mai da sole) la potenza del braccio.
Ma subito dopo veniva una prova ben più impegnativa: la gabbia.
Questa era solamente meccanica. Veniva mossa, infatti, soltanto dai muscoli e dalle spinte. Appena entrati, però, si aveva la sensazione di stare davvero “in gabbia”. Chiusa la porticina di ferro, l’operatore dava una piccola spinta. Quella iniziava a dondolare. Da allora in poi erano soltanto muscoli e spinte. Bisognava dondolarsi spingendo un po’ avanti ed un po’ indietro. Ma quella era un po’ “dura” a salire più in alto. Però, più si saliva, più la sua resistenza scemava fino a che con un ultimo sforzo non si riusciva a farla girare. Allora tutto diveniva più semplice anzi più si spingeva durante la discesa, più quella acquistava velocità. Era una velocità non eccessiva ma inebriante perché ottenuta con le proprie forze e il proprio saper fare, senza ricorrere a “mezzi esterni” come l’elettricità. Non si gridava per paura o per emozione ma per la soddisfazione di essere riusciti nell’intento con le proprie forze ed anche per attirare l’attenzione degli altri o meglio di quelle che stavano giù con il naso all’insù. Peccato che questi giri più belli e più facili da compiere duravano poco rispetto alla precedente fatica: quella di portarla in cima. Dopo un poco, infatti, l’operatore innescava il freno e la gabbia piano piano finiva la sua corsa o meglio le sue giravolte. Non sono riuscito mai a capire se i tempi fossero gli stessi. Se, cioè, il tempo della salita e quindi della fatica fosse lo stesso di quello di quando la gabbia girava con poca fatica. Quest’ultimo mi sembrava sempre più breve rispetto al precedente. Forse il tempo bello dura poco oppure quello faticoso ci rimane più impresso e ci sembra più lungo? Era, comunque, affascinante vedere il mondo dall’alto. Ripensandoci adesso, era anche una metafora: “Siamo tutti in gabbia e si sale e si scende. Ma per salire ci vuole la forza, la costanza e bisogna sapersi adoperare. Bisogna, quindi, sapersi spingere: darsi, cioè, da fare con le proprie forze senza aspettare il “buon cuore” altrui che quasi mai è disinteressato”.
Una elaborazione moderna della gabbia a pendolo, ma diversa da quella così vividamente descritta da Pasquale e come è anche nei nostri ricordi: individuale, con il “giocatore” attaccato alle sbarre che si dava un gran da fare, avanti e indietro. “La gabbia” a oscillazione non ha un corrispettivo di immagine, sul web– ndr.
– È un’antica forma mentis che non può essere più accettata – dice Veruccio – Poi, una volta preso l’abbrivio, tutto potrebbe essere più semplice. Ma – aggiunge con un sorrisetto ironico – sull’Isola queste giostre mi sembra di non averle mai viste”.
Rispondo: – Probabilmente per la difficoltà di trasportare tutto quell’armamentario per nave; oppure per mancanza di spazio.
Poi aggiungo un po’ piccato: – Lo spazio è angusto ma dalla Guardia l’orizzonte si allarga: spazia su ogni lato. Nulla c’è di più bello!
Ci allontaniamo insieme. Veruccio abbracciato a Pasquale.
