Psicologia

L’opzione nucleare

segnalata da Sandro Russo, da la Repubblica, un’intervista di Serenella Iovino

Appartengo alla generazione che ha convissuto con la paura della “bomba” ed è sopravvissuta ad essa, ma certe paure non si dimenticano; rimangono appena sotto il livello della coscienza e si ridestano per motivi occasionali e contingenti. Questo è uno di quei momenti.
Al capolavoro di Stanley Kubrik abbiamo dedicato diverse citazioni e approfondimenti in tempi non sospetti… Anche più di una epicrisi: leggi qui e qui.
Infine abbiamo inserito Serenella Iovino – per comune sentire – nel ristretto novero dei nostri guru di riferimento.
Perciò propongo questo articolo da la Repubblica di ieri, letto di corsa e riemerso alla memoria stamattina, prepotentemente, dopo averci dormito sopra.
Ce n’è d’avanzo per raccomandarlo ai lettori di Ponzaracconta.
S. R.

L’intervista
Paul Slovic “Ecco perché la Bomba è più vicina”
di Serenella Iovino

– Siamo convinti che il deterrente più sicuro alla guerra nucleare sia la ragione
– Ma lo psicologo americano lancia l’allarme “La decisione finale sarà improvvisa. E emotiva”

Un generale impazzito vuole provocare una guerra nucleare. Riescono a fermarlo, ma la procedura è partita e indietro non si torna: la bomba viene sganciata dalla carlinga dell’aereo sotto gli occhi dei soldati increduli. A seguire, l’immagine del loro capitano seduto a cavalcioni sull’ordigno lanciato nel vuoto, un urlo da cowboy, dissolvenza su funghi atomici e una canzone che dice «ci incontreremo ancora ». Quant’è realistico uno scenario alla Dottor Stranamore? E davvero dobbiamo smettere di preoccuparci e imparare ad amare la bomba? Sembra esagerato, eppure il rischio di ritrovarci in un caos nucleare diventa ogni giorno meno remoto, e in sottofondo si sente il ticchettio del Doomsday Clock, l’orologio che fa il conto alla rovescia per l’Apocalissi.
Ma se una guerra atomica smette di diventare un tabù, allora forse è il caso di capire quali sono i meccanismi emotivi e psico-politici che stanno dietro a certe decisioni estreme. Perché la politica non è solo lo spazio pubblico in cui, a seconda dell’egemonia e dell’ideologia, si persegue un’idea di bene comune. È anche un’arena dove le emozioni, i sentimenti e gli impulsi possono giocare un ruolo più determinante dei calcoli. Ne abbiamo parlato con Paul Slovic, classe 1938, una delle voci più autorevoli al mondo in materia di psicologia del rischio e processi decisionali. Professore all’Università dell’Oregon, sta per pubblicare i risultati di un importate studio sul potenziale ruolo dell’emotività nel determinare un conflitto nucleare. Repubblica lo ha sentito in anteprima.

Dottor Slovic, dobbiamo avere paura?
«Potremmo. I risultati delle ricerche mostrano perché è probabile che le armi nucleari vengano utilizzate di nuovo. E uno dei fattori trascurati dagli analisti politici e militari è proprio l’emotività».
Ci aiuti a capire.
«Prendiamo la teoria della deterrenza nucleare. Presuppone che attaccare un nemico dotato di armi atomiche significherebbe scatenare un conflitto senza vincitori. Questo presume che gli attori coinvolti agiscano in modo lucido e coerente, calcolando con razionalità costi e benefici e decidendo di non usare mai queste armi. Ma la razionalità è solo una parte del processo decisionale e potrebbe non prevalere. Di fatto l’emotività può giocare un ruolo cruciale nelle situazioni in cui c’è un leader forte con pieni poteri militari».
Significa che chi decide un attacco è preda delle proprie emozioni?
«Spesso agiamo sotto la spinta di interessi immediati, scegliendo l’opzione che sentiamo più urgente o conveniente a breve termine, piuttosto che considerare alternative più vantaggiose nel lungo periodo. Si chiama “effetto prominenza”. Può sembrare un paragone azzardato, ma i meccanismi emotivi e cognitivi che presiedono alle scelte di chi va al supermercato e di chi decide un attacco nucleare sono gli stessi».
Perché le emozioni sono così importanti per agire?
«L’intelligenza emotiva è più antica e radicata di quella analitica. È per questo che le emozioni possono imporsi senza che ne siamo consapevoli. Di fatto esistono un “pensiero veloce”, emotivo, e un “pensiero lento”, basato sull’analisi ragionata. Abbiamo bisogno di entrambi, ma è il pensiero veloce a emergere per primo e di solito è dominante».
Si è parlato di leader, ma quanto sarebbe socialmente accettabile un conflitto atomico?
«Più di quanto si creda. Abbiamo sottoposto a test circa tremila partecipanti, tutti americani.
Avevano tre opzioni: continuare una guerra terrestre, che gli Usa vincerebbero ma con perdite militari crescenti, oppure lanciare un attacco nucleare che in un caso avrebbe ucciso due milioni di civili nemici e “appena” centomila nell’altro. Di fronte alla prospettiva di perdere anche solo cento vite americane, oltre il 20 per cento ha scelto l’opzione nucleare. Quando le perdite americane salivano a quarantamila, il sostegno balzava al 50 per cento per l’opzione “meno letale”, centomila civili».
Come si spiega?
«Decisivo è ciò che chiamiamo psychic numbing, anestesia emotiva.
Spesso milioni di morti ci lasciano indifferenti. Non è disumanità, ma una limitazione cognitiva che rende difficile per il nostro cervello rispondere a eventi che coinvolgono un gran numero di persone.
Paradossalmente, ci colpisce più un morto solo con un volto che una strage di persone anonime».
L’empatia si nutre di singolarità
«Le nostre emozioni non si sommano né si moltiplicano bene. L’abbiamo chiamata “aritmetica della compassione”: due più due fa quattro, ma per l’empatia fa di meno. È fortissima quando di fronte c’è una persona, ma già con due si affievolisce. Se poi le vittime diventano cento, mille, un milione, allora non sono più individui, sono statistiche. E non empatizziamo con i numeri».
Ma come si arriva all’anestesia psichica?
«In realtà è una forma di protezione.
Fu studiata per la prima volta a Hiroshima nei superstiti e nei soccorritori, anestetizzati dai loro cervelli per resistere all’orrore. È una strategia evolutiva: i nostri progenitori dovevano concentrarsi su pericoli e stimoli limitati. Oggi le conseguenze sociali possono essere serie. Anche perché può essere accentuata da un discorso politico che desensibilizza di fronte alla sofferenza altrui. Inoltre esiste anche un altro fattore, la “violenza virtuosa”».
Di che cosa si tratta?
«È alla base di politiche aggressive che, per giustificare alti costi umani, presentano le vittime come colpevoli, e quindi come etica una punizione.
Questo meccanismo è particolarmente potente quando è usato per proteggere gli interessi di un gruppo o di una nazione. Lo ha fatto Hitler con gli ebrei e lo vediamo anche nei conflitti in corso. Ma lo ritroviamo anche quando le persone commettono violenza perché credono sia la cosa giusta da fare. Va da sé che la violenza non è mai virtuosa, virtuosi possono essere il dialogo, le negoziazioni eque, i procedimenti legali. È l’emotività che ci fa credere il contrario».
Che messaggio intendete dare con la vostra ricerca?
«Il nostro studio è un grido d’allarme: se vogliamo che la civiltà sopravviva a una guerra nucleare è necessario gestire queste armi con prudenza, moltiplicando i controlli incrociati nella catena di comando, limitando il numero di bombe e la loro capacità distruttiva. Sono necessari nuovi trattati per imporre queste restrizioni. Purtroppo, stiamo assistendo a una tendenza opposta: l’Orologio dell’Apocalisse si è spostato a 59 secondi a mezzanotte.
Secondo il Bulletin of the Atomic Scientists, è un percorso verso la follia. Sono d’accordo. Spero che la ricerca che io e i miei colleghi stiamo conducendo possa portare il mondo a invertire la rotta».
Noi cittadini che possiamo fare?
«Essere consapevoli che ogni vittima ha un volto, e non smettere di far sentire la nostra voce, senza farci guidare solo dalle emozioni. Perché le emozioni sono fondamentali, ma la politica e la civiltà hanno bisogno anche della ragione».

“Può sembrare un paragone azzardato ma i meccanismi che presiedono alle scelte di chi va al supermercato e di chi ordina un attacco definitivo sono gli stessi”

“Fondamentale è ciò che chiamiamo anestesia emotiva Spesso milioni di morti ci lasciano indifferenti Non è disumanità, ma una limitazione cognitiva”

La Repubblica del 1° Maggio 2025 pp. 32-33.pdf

Ricerca nell’indice del sito per Serenella Iovino

 


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4 Comments

4 Comments

  1. Carlo Secondino

    2 Maggio 2025 at 22:16

    Hai fatto benissimo, caro Sandro, a pubblicare, non è mai troppo tentare di tenere sveglie le coscienze, cosa davvero difficile in questo nostro tempo, in cui rischiamo come non mai l’assuefazione, l’assenza sui problemi troppo gravi.
    Solo che mentre leggevo le argomentazioni mi erano fresche in mente…
    Poi ho realizzato che avevo seguito l’articolo in cuffia questa mattina, camminando per Cassino, alla rassegna stampa di Rai radio 3.
    Trovo terribilmente vero che il pensiero, e quindi anche l’atto del decidere, sia soggetto all “effetto prominenza”.
    A presto

  2. Rita Gasbarra

    4 Maggio 2025 at 06:24

    Da brividi! “Ogni morto ha un volto”. Avevo pensato che sarebbe importante raccogliere e pubblicare i volti di tutti i morti a Gaza o in Ucraina e magari mettere una piccola storia: aveva 12 anni, voleva fare il calciatore; panettiere, il pane più fragrante della zona, dottoressa, trucidata… Sarebbe importante, per non girarci dall’altra parte e non essere anestetizzati dalla moltitudine dei numeri.

  3. Sandro Russo

    5 Maggio 2025 at 06:56

    Questo articolo è impressionante. Ci vedo un’analogia col finis vitae individuale.
    Come se la specie umana fosse giunta alla fine del suo ciclo vitale e come succede per gli individui l’uscita di scena fosse preceduta da manifestazioni a volte striscianti, a volte franchi di demenza. I segni sono dappertutto intorno a noi; non è solo una mia impressione che la deriva folle degli individui e dei gruppi sia in aumento.
    Non sono mai stato ‘millennarista’ o ‘catastrofista’, e forse è solo che in questi ultimi tempi sono particolarmente angosciato dal fatto di vedere intorno a me un certo numero di conoscenti e di amici che non stanno avendo propriamente “una serena vecchiaia”. Sempre più spesso si sente di persone con Alzheimer o altre malattie degenerative cerebrali. Assistere al loro declino è un’esperienza terribile e fa venire strani pensieri.

  4. Teresa Denurra

    5 Maggio 2025 at 09:26

    Sandro, condivido in tutto l’angoscia e le tue parole. L’articolo è straordinario. Mi ha colpito profondamente, ma ti ricopio solo una frase su tutte…
    “le emozioni sono fondamentali, ma la politica e la civiltà hanno bisogno anche della ragione”.

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