Foto

Pasqua di consapevolezza del male e di speranza

due articoli proposti da Teresa Denurra e Sandro Russo

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Ho ricevuto una segnalazione da parte di Teresa, dalla Sardegna, di due articoli – di Marco Belpoliti (da www.doppiozero.com) e di Michele Smargiassi (da la Repubblica) sullo stesso tema. Teresa sa che leggo Repubblica e di recente siamo andati insieme a vedere la Mostra di Caravaggio a Palazzo Barberini.
Ha accompagnato il suo invio con una citazione da Belpoliti e una dall’Ulisse di Joyce:
“….il viso sembra uscito da un quadro di Caravaggio, per quel taglio e anche per l’intensità…”
“La storia, disse Stephen, è un incubo dal quale sto cercando di svegliarmi”
Il tema comune riguarda la foto che ha vinto al World Press Photo of the Year  per il 2025
S. R.

Abbracciare a Gaza
di Marco Belpoliti – 18 aprile 2025 – https://www.doppiozero.com/abbracciare-gaza

Per quanto tempo riesco a guardare la foto di Mahmoud Ajjour? Poco, pochissimo, e solo a patto di fissare il ragazzino e non i moncherini delle braccia. La fotografa palestinese Samar Abu Elouf ha inquadrato Mahmoud in una penombra: la luce scende da destra, colpisce il suo viso dolente, il petto e la canottiera, e lascia in ombra quello che resta del suo braccio sinistro. E invece per scrivere queste righe lo guardo e riguardo. Il viso sembra uscito da un quadro di Caravaggio, per quel taglio e anche per l’intensità, così penso. L’arte e anche la poesia mi vengono in aiuto per farmi da scudo davanti a questo orrore: “l’anima abbraccia/ li spiriti che piango tuttavia”. Da quale recesso viene questo verso del padre Dante? Lo controllo perché non ne sono sicuro. Così sullo smartphone sparisce il viso di Mahmoud e mi appare la voce “Abbracciare” dalla Enciclopedia dantesca. “Cingere le braccia”, così inizia la pagina web che riporta le tante volte che il Poeta cita il verbo. Ho cercato questi versi perché nella didascalia di questa immagine – che ha appena vinto il World Press Photo del 2025 e raffigura il bambino rimasto gravemente ferito a Gaza nel mese di marzo dello scorso anno – la fotografa ha raccontato che Mahmoud quando ha capito cosa gli era accaduto avrebbe detto alla madre: “Come farò ad abbracciarti?”. Una frase che lascia senza fiato, una frase di un affetto che travalica ogni altra cosa poiché nasce dal cuore di un innocente.
Adesso sono qui a scrivere queste righe perché non si può tacere, perché bisognerebbe urlare lo strazio di questo ennesimo raccapriccio – dovevo ripetere la parola “orrore”, non c’è un altro termine per dirlo, e forse dovrei scrivere questa parola cento volte su questa pagina, ma a cosa serve?
Lo scorso anno, forse lo ricordate anche voi, il premio – premio fotografico all’orrore purtroppo – è andato a un’altra tragica immagine, anche questa scattata a Gaza: Inas Abu Maamar, donna palestinese di trentasei anni, stringeva il corpo di una bambina avvolta nel lenzuolo bianco: Saly, di cinque anni, è stata uccisa insieme alla madre e alla sorella, un missile israeliano ha colpito la loro casa. Non si vedevano i volti della Mater dolorosa e neppure della nipote. Non c’era un viso umano da guardare, forse per nostra fortuna [sul sito leggi qui].

Il viso di Mahmoud Ajjour rende più straziante ancora la mutilazione, per quanto in parte nascosta dall’oscurità in cui è immerso il suo corpo martoriato. Quel viso parla anche se le labbra sono serrate. Che dice? Una parola che non può essere scritta. E cosa posso dire io ancora? Ci vuole un premio fotografico per farci guardare lo strazio di Gaza, il suo indicibile dolore? La legge spietata della comunicazione, che domina il nostro universo, dice: sì.
Ci vuole una fotografia per guardare e per vedere. Ancora una volta devo ricorrere alle voci della letteratura, a quelle che ci parlano e ci illuminano, nonostante tutto, in questo mondo che non conosce la pace, e neppure la giustizia. Sono le parole di Susan Sontag il cui libro, Davanti al dolore degli altri (Nottetempo), continua a parlarci, mai invano.

È poca cosa, ma è ancora qualcosa in mezzo a questa realtà che dallo sterminio di Gaza alla guerra in Ucraina usa solo la lingua del dolore. Sono le ultime righe del suo libro. Susan Sontag si riferisce ai morti, ma credo valga anche e soprattutto per i vivi, per questo ragazzino: “Perché mai dovrebbero cercare il nostro sguardo? Che cosa avrebbero da dirci? “Noi” – e questo “noi” include tutti quelli che non hanno mai vissuto nulla di simile a ciò che loro hanno affrontato – non capiamo. Non ce la facciamo. Non riusciamo a immaginare davvero come è stato. Non possiamo immaginare quanto sia terribile e terrificante la guerra; e quanto normale diventi. Non capiamo, non immaginiamo. È questo ciò che pensano con convinzione tutti i soldati, e tutti i giornalisti, gli operatori umanitari, gli osservatori indipendenti che si sono ripetutamente esposti al fuoco e hanno avuto la fortuna di eludere la morte che ha falciato chi stava loro vicino. E hanno ragione”.

In copertina, Mahmoud Ajjour, Aged Nine © Samar Abu Elouf, per il The New York Times.

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Il piccolo Mahmoud senza braccia. La guerra sulla pelle delle vittime assolute
di Michele Smargiassi – Da la Repubblica del 17 aprile 2025

L’immagine premiata al World Press Photo si aggiunge a quella dei bambini che hanno rappresentato tanti altri conflitti, altre tragedie, dal Vietnam al Biafra: capaci di additare il male senza giustificazioni né alibi.

Mahmoud poteva cavarsela, ma tornò indietro per incitare i suoi familiari a scappare più in fretta dal bombardamento israeliano su Gaza City, uno dei tanti, nel marzo 2024. Un’esplosione improvvisa gli strappò via il braccio destro e gli sbranò a metà quello sinistro. Mahmoud Ajjour, nove anni, è un salvato, dopo tutto. Adesso è a Doha, in un ospedale specializzato in ferite di guerra, dove sono passati altri settemila bambini palestinesi come lui. In quell’ospedale una fotografa palestinese, Samar Abu Elouf, anche lei evacuata in Qatar, gli ha fatto questo ritratto, che il New York Times ha poi pubblicato, e che ieri ha vinto il premio foto dell’anno del World Press Photo, l’Oscar del fotogiornalismo.

Mahmoud ha detto a Samar di avere tante speranze. In attesa delle protesi, usa i piedi per aprire le porte e giocare sul cellulare. Possiamo dire che ci si aspettava dal WPP che scegliesse una fotografia dal massacro di Gaza. Il WPP ha la tendenza a premiare la peggiore tragedia dell’anno. Ma vuole farlo con il miglior stile fotografico. Per i giurati del premio, “questo ritratto, con la sua forte composizione e l’attenzione alla luce, suscita domande sul futuro del ragazzo ferito, e sulla disumanizzazione di una regione”.

Ovviamente, le polemiche sulla rappresentabilità dell’orrore esploderanno anche questa volta, e la risposta, come sempre, sarà o dovrebbe essere quella che diede una volta per tutte la studiosa Susie Linfield: “Cosa c’è di sbagliato nel mostrare l’ingiustizia, cosa c’è di giusto nel nasconderla?”.

Ma era anche probabile che la fotografia simbolica dello sterminio israeliano della gente di Gaza, fosse la fotografia di un bambino. Dall’ospedale del Qatar fanno sapere che almeno undicimila bambini gravemente feriti sono ancora là, fra le macerie di Gaza, sotto le bombe esplosive e sotto la morte per fame dovuta al blocco degli aiuti umanitari. Per altre decine di migliaia non si può più fare nulla, loro sono già polvere alla polvere. I loro ritratti non li avremo, sono troppi, e sono sempre meno i fotoreporter sul campo, i nostri occhi delegati su un orrore disumano. Con Fatima Hassouneh, fotografa palestinese, uccisa ieri, sono oltre duecento i giornalisti ammazzati a Gaza, spesso presi deliberatamente di mira.

Un bambino. Come bambini erano fra le vittime del sanguinario pogrom di Hamas del 7 ottobre. Bambini, “danni collaterali” per gli ipocriti. Bambini come la piccola Kim Phuc dalla schiena devastata dal napalm, fotografata da Nick Ut in Vietnam nel 1972. Come il piccolo Jo dal volto butterato dalle schegge di mina che lentamente lo uccisero, fotografato da Werner Bischof in Olanda nel 1945. Come l’anonimo scheletrico albino ritratto da Don McCullin in Biafra nel 1960. Come i corpicini straziati dai mitra dei marine su un sentiero di My Lai, in Vietnam, fotografati da Ron Haberle nel 1968. Come il minuscolo Alan Kurdi migrante spiaggiato sulla sabbia di Bodrum, ripreso da Nilüfer Demi nel 2015. Bambini, bersagli ultimi di ogni ingiustizia. Immagini di bambini come schiaffi in faccia.

Nelle guerre muoiono milioni di adulti. Dalla seconda guerra mondiale in poi, sotto la finta ipocrita pace della deterrenza nucleare, sono oltre venti milioni. Ma quando vogliamo gridare tutto lo schifo per la violenza della guerra, è alle foto dei bambini che facciamo ricorso. Come se la vista delle vittime adulte non bastasse da sola a strapparci dall’anima l’indignazione necessaria. Come se avessimo bisogno di vittime speciali, di vittime al quadrato, vittime assolute, vittime che non ci lasciano alcuna possibilità di dubitare del loro essere vittime. Ma i bambini sono queste vittime speciali. Lo sono in ogni cultura e in ogni epoca. Lo sono per istinto di protezione animale, per definizione, per auto-evidenza, non sembra neppure ci sia bisogno di spiegare perché lo sono. La morte di un bambino appartiene all’area del sacer, che è sacro e maledetto assieme.

Il bambino, a differenza dell’eroe romantico, non può opporsi alla propria disfatta. In quanto innocente per definizione, privo di volontà di fare il male, il bambino è la vittima assoluta. Dunque, il bambino è l’unica vittima in grado di additare il male assoluto. Il male che non può accampare alcuna giustificazione, né esimente, né alibi o anche solo una spiegazione. Perché il male “adulto”, invece, viene spesso giustificato. Di fronte alla violenza della storia, soprattutto se in qualche modo ci sconvolge, la nostra coscienza cerca tutti quegli alibi, esimenti e spiegazioni.
La vista del corpo straziato di un adulto può essere altrettanto sconvolgente di quella di un bambino, ma l’adulto, anche se vittima, non è mai ritenuto pregiudizialmente innocente. In qualche modo potrebbe essersi meritato la pena. Anche quando non è un soldato nemico, quindi uno che volente o nolente ha accettato il mors tua vita mea, anche quando è la passiva vittima civile di una guerra, lo si può sempre accusare di aver sostenuto le scelte del suo paese, di aver parteggiato, di essere stato consenziente e complice di un governo colpevole.
Il bambino è incapace di responsabilità politica e morale: tornare puri come bambini è la condizione per entrare nel regno dei cieli. Il sacrificio del bambino viola la purezza pre-adamitica dell’uomo. Il bambino è privo di peccato originale, il suo sacrificio è puro sacrificio. Il bambino è l’innocenza. Ma le fotografie di bambini massacrati non fermano le guerre. Anche oggi abbiamo una fotografia. Abbiamo una storia. Abbiamo un premio. È davvero tutto quello che ci serve? Cosa ci manca?

[Michele Smargiassi Da la Repubblica del 17 aprile 2025]


Nota

Susan Sontag (1933 – 2004)


Ediz. Mondadori 2006

Ediz. Nottetempo 2021

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