di Pasquale Scarpati
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Quando – …ma quando? – metto piede sull’amato scoglio e con un natante faccio il giro dell’Isola, è come se mi accingessi a fare una.. crociera. In me, infatti, è rimasta quell’antica sensazione di trascorrere un’intera giornata in mare, lungo la costa, alla scoperta di un mondo quasi sconosciuto.
Allora: un’intera giornata! Per non riuscire neppure a fare il periplo dell’Isola. Ma giunto quasi in prossimità di Capobianco mi vedevo costretto a tornare indietro. Sia perché la fatica di vogare (in qualsiasi verso) era tanta, sia perché, d’estate, nel pomeriggio sia alzava il fresco maestrale che impediva di procedere oltre. Se invece optavo per la via verso Frontone, a stento, tra un bagno ed un altro (anche di sudore), riuscivo a raggiungere lo Spaccapurpo.
La collina del cimitero e (sotto) le grotte di Pilato
Uscendo dal porto e procedendo verso destra la prima rinfrescata non poteva non avvenire nelle grotte di Pilato. La frescura dell’acqua della vasca si uniformava alla frescura della grotta. Uscendo, il sole di nuovo abbagliava e picchiava. Ero costretto a vogare con il viso rivolto verso la prua alla maniera dei pescatori per passare nella stretta gola dei faraglioni della Madonna. Avrei dovuto manovrare a regola d’arte: un remo che avanzava ed uno che indietreggiava. Poi tutto in avanti anche velocemente. La prua della barca, immergendosi leggermente sotto la spinta dei remi, divideva la placida acqua; creava, così, una piccola onda che si andava ad infrangere contro le pareti vicine, scoscese e ruvide del faraglione. Le guardavo anche con un po’ di timore come se quelle all’improvviso dovessero ricongiungersi. Immaginavo di oltrepassare chissà quale gola: forse le forche Caudine o le…Termopili!
I faraglioni della Madonna e il fonfo i faraglioni del Calzone muto
Come quando ai pellegrini medioevali, dopo un dedalo di viuzze, si apriva, immenso, il colonnato del Bernini (non esisteva via Della Conciliazione) e rimanevano estasiati per la sua immensità, così dopo quella gola, si apriva lo scenario vasto della Parata e subito l’occhio si allungava ai massi fermi, solenni che stavano lì da chissà quanto tempo a testimoniare un tempo passato, interrotti in lontananza da altri faraglioni che forse, per la loro avvenenza, si erano allontanati dalla quella massa o forse erano a guardia della stessa. Un antico teatro romano le cui gradinate erano formate dalle “catene di terra” che insistevano su su fino in cima e lungo le pendici del monte Guardia. Forse da lì si poteva godere l’antica scena i cui resti (le Formiche) galleggiano ancora a fior d’acqua. La spiaggetta della Parata mi era luogo oltremodo conosciuto per cui non valeva la pena soffermarsi.
Questa volta potevo dare di schiena alla prua ed incedere con più vigore perché sapevo che quegli alti scogli che si stagliavano verso il cielo in lontananza facevano da “ sentinella” a un posto a me molto caro: “il Bagno Vecchio”, con le sue patelle ed i suoi rufoli.
Il Bagno vecchio e i Faraglioni del Calzone muto
Mentre lentamente transitavo nelle sue vicinanze, la “sentinella” borbottava ma sommessamente ed io, quasi sfidandola, la guardavo dal basso verso l’alto, cercando con gli occhi l’origine del suo nome, un po’ fuori dagli schemi. La barca, intanto, se la rideva ed insieme a lei trovavo rifugio nella piccola spiaggia. Lì la lasciavo mentre mi divertivo a passare sotto il piccolo arco come condottiero romano trionfante. Quelle grotte mi davano un senso di antico e mi chiedevo quali storie potessero raccontare. Nonna Civita (detta in famiglia nonna Carlina per via del marito Carlo) mi parlava dei “Quatt’” (ma soltanto in seguito ho capito di chi parlasse). Non capivo, infatti, cosa c’entrasse il numero quatt (quattro) con le persone. Forse erano solo in… quattro!? In seguito seppi dei Coatti e della loro miseria!
Monte Guardia, il Faraglione e il Faro della Guardia visti dalle Formiche
Riprendevo il cammino ma già sapevo quale scenario si aprisse dietro il “gigante” (così definivo il faraglione della Guardia). Non conoscevo ancora Polifemo ma somigliava all’orco delle favole che mi raccontava zia Malvina. Non sapevo, però, quale “mare” mi aspettasse oltre la sua massiccia mole o meglio il suo sbarramento!
L’onda che si frangeva sugli spigoli aguzzi simili a scaglie di drago già mi faceva presagire ciò che avrei trovato: se spumosa, voleva dire che vi era un leggero “marittuolo”, se vivace e spumosa un po’ di “maretta”, se placida voleva dire che avrei potuto anche fare la… “traversata”. Palmarola: lontanissima. Così lasciati a destra il Fieno e, laggiù in fondo, Chiaia di Luna (località per me “comuni” o meglio quasi usuali), drizzavo la prua verso le grotte di Cap’ Ianch’ (Capobianco).
Giunto colà ristoravo le forze immergendomi nella frescura di quelle che mi accoglievano come dimora, ai Conti, di nonna Tummetella, dal tetto a cupola: fresca. Emettevo suoni perché avvertivo che il corpo si ritemprava. Soltanto l’eco mi rispondeva. Nessun’altra voce se non il grido di qualche gabbiano affamato, sempre in cerca di cibo che galleggiasse. Si era fatto già tardi. Il Sole aveva già da tempo superato lo zenit. Non si poteva andare oltre perché la via del ritorno era ancora più dura. Il Lanternino si avvicinava lentamente o meglio sembrava irraggiungibile.
Finalmente ormeggiavo l’amica barca alla banchina che sapeva di nuovo. La barca ubbidiente ai comandi dell’uomo. Sospinta dalla sua forza. Non sottoposta ai capricci del vento né a quella dei motori che ti possono lasciare in panne in mezzo al gorgo e nei momenti difficili. Sei tu, uomo, che la governi con la tua conoscenza. Sai schivare le chiane traditrici, semi-affioranti. Conosci il vento e la barca è costretta per forza a seguire la direzione da te voluta. Ma tu, uomo, per ottenere ciò, devi conoscere, essere attento e soprattutto faticare. Essa ubbidisce perché sa che è guidata da mano sicura che sa manovrare i remi. Era la barca di Franco il fruttivendolo… mi lasciva andare, dondolandosi come una donna che, vedendosi ammirata, cammina civettuola. Quasi quasi sembrava volesse dirmi: “Perché te ne vai? Resta un altro poco con me!” Volentieri sarei rimasto. Ma dovevo andare: altri impegni mi attendevano ed anche un po’ di paura. Ricco di salsedine, infatti, subivo gli aspri rimproveri dei miei. Nonostante ciò, già pensavo ad un’altra….scorribanda perché avevo sempre voglia di scoprire un Paese che era “ mio” ma semisconosciuto a causa della sua “vastità”.
Le Forna, infatti, erano, per me (riprendendo il Metternich), “un’espressione geografica” Ne venni a conoscenza soltanto nella prima adolescenza ( verso la fine degli anni ’50 del secolo scorso), quando cominciai ad accompagnare mio fratello Carlo o zio Peppe nella loro “via crucis” (a causa delle numerose “stazioni”, fermate) per consegnare il pane o altra merce ai vari esercenti locali (ne ho scritto scritto a suo tempo).
[Ricordando il giro dell’isola. (1 ) – Continua]
