segnalata dalla Redazione, l’uscita in edicola (e on line) del nuovo numero di Limes, dal sito del magazine e da la Repubblica di ieri
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Malgrado ci siano sorti dubbi sul ruolo della geopolitica in tempi di tiranni – leggi qui e qui le opposte visioni di Sandro Russo e Tano Pirrone – mi fa piacere attestarne qui la volenterosa sopravvivenza:
È in edicola in nuovo numero di Limes, dedicato all’America e all’Europa.
Di cosa tratta
Il terzo volume di Limes del 2025 analizza, con il consueto rigore analitico e con ricchezza di prospettive, ciò che fino a ieri appariva inconcepibile: il possibile, burrascoso divorzio geostrategico tra Stati Uniti ed Europa.
I primi ormai da diversi anni alle prese con una crisi di fiducia interna e di proiezione esterna, sfociata nel rabbioso ripiegamento di cui la seconda amministrazione Trump è sintomo e artefice. La seconda all’affannosa ricerca di risposte al temuto, ma sempre esorcizzato voltafaccia statunitense, che scardina gli assunti di base dell’ordine veterocontinentale e ci obbliga a fare i conti con i nostri limiti economici, geostrategici e politici.
Le tre parti del volume analizzano i tre fronti principali di questa tempesta. La prima parte (“L’atlantico più largo”) affronta ragioni e manifestazioni della sopraggiunta, aperta ostilità americana, ripercorrendone la genesi e tentando di tracciarne la traiettoria imminente.
La seconda parte (“Noi nell’euro-confusione”) fa un bilancio provvisorio delle ricadute e delle opzioni per noi europei, con particolare attenzione alla situazione italiana in relazione a Washington e agli altri paesi dell’Unione Europea.
La terza parte (“Ucraina, anno zero”) fa il punto sulla guerra ucraina, da tre anni fattore destabilizzante della sicurezza europea e ora anche del rapporto transatlantico. Gli articoli di questa sezione prospettano i possibili sviluppi alla luce della condizione sul campo, della situazione interna di Russia e Ucraina, ma anche delle capacità e volontà di europei, americani e cinesi, le cui scelte concorreranno a determinare esito e impatti a lungo termine del sanguinoso conflitto.
Il sommario
La sindrome dell’ombrello fantasma – Editoriale (in appendice: Lettera dall’America)
Parte 1 – L’Atlantico più largo
Il nuovo credo della rivoluzione americana – Federico Petroni
‘La Nato non è altro che un mito’ – George Friedman
Non esportare la rivoluzione – Sumantra Maitra
L’America dopo l’Occidente – Giuseppe De Ruvo
I dazi come specchio dei tempi – Fabrizio Maronta
In morte della deterrenza – Seth Cropsey
Patti chiari e amicizie lunghe – Orietta Moscatelli
‘Russi e americani continueranno a parlarsi’ – Fëdor Luk’janov
L’America al crepuscolo non dividerà Cina e Russia – Hou Aijun
Parte 2 – Noi nell’euro-confusione
Mr Trump, l’Italia è strategica – Scott Smitson
Quale riarmo – Francesco Zampieri
La trappola di Bruxelles o dell’emoziocrazia – Romano Ferrari Zumbini
Il Grande piano europeo – Giuseppe Cucchi
Orfani di Gazprom – Massimo Nicolazzi
Caro Merz, ora o mai più – Michael Rühle
L’eccezione francese e l’occasione Trump – Olivier Kempf
La Polonia al bivio imperiale – Daniel Foubert
Londra alla prova della realtà – Timothy Less
Parte 3 – Ucraina, anno zero
Apologia di Zelens’kyj – Fulvio Scaglione
Meglio una mela bacata di una mela ideale – John Florio
Pace giusta o vittoria mutilata? – Davide Maria De Luca
Zelens’kyj o non Zelens’kyj? – Elena Kostjukovič e Mikhail Minakov
La guerra dei traffici – Nicola Cristadoro
La disputa Ucraina-Romania sul Basso Danubio – Livio Maone
Poltava, la fine della potenza svedese – Roger Anton Calvello
L’Europa ‘brucia come uno svedese a Poltava’ – Vitalij Tret’jakov
Autori
La storia in carte a cura di Edoardo Boria
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L’analisi
L’Europa smarrita e la vecchia Nato rimasta senz’anima
di Lucio Caracciolo – Da la Repubblica del 12 apr. 2025
L’America è stanca di pagare il prezzo della sua egemonia. E il disimpegno annunciato dal leader non dovrebbe stupire nessuno
La disgregazione della pletorica famiglia europea, che Tolstoj difficilmente avrebbe classificato felice, procede secondo canone. Il capo americano si sfila dalle troppe consorti europee maritate con rito atlantico. Quell’informe trentina non riuscirà a convincerlo di avere impalmato e assimilato un’unica moglie, in metafisica battezzata Europa. Per il prosaico americano trattavasi di fidanzamenti a diversa intensità. Bilateralismo pratico travestito da alleanza. Determinato dall’impossibilità di considerare Skopje, Podgorica, Tallinn o Riga alla stregua di Londra, Parigi, Berlino o Roma.
Eppure fra gli europei c’è chi continua a evocare l’articolo 5 del Trattato di Washington (1949) quasi fosse garanzia statunitense per tutti.Addirittura di scorporarlo una tantum dal sacro testo per omaggiarne l’Ucraina residua, illusa e abbandonata sulla via per Mons.
Gli americani possono piacere o spiacere, però non sono scemi. Noi europei si spera nemmeno. A volte pare ci piaccia sembrarlo. Solo che a forza di fingere rischiamo di credere alla nostra recita. Danno cento volte peggiore della rozza propaganda russa, che spesso non convince nemmeno chi la produce.
All’America decisa a disimpegnarsi all’americana, ossia con schietta brutalità, serve evitare di ammettere davanti al proprio pubblico e al mondo di aver fallito l’ennesimo scontro bellico – sia pure via sacrificabili ucraini – come ogni volta dal 1945 in avanti. Però solo dopo aver stabilito, se mai ve ne fosse stato bisogno, che la Russia non è l’Unione Sovietica. Né quella vera né la versione con steroidi che Washington ritenne utile sbandierare per tenerci insieme, noi che non chiedevamo di meglio. Guardandosi allo specchio oggi sono semmai alcuni americani a chiedersi se non assomiglino agli ultimi sovietici.
Malgrado lo sforzo di francesi, tedeschi, inglesi, polacchi e altri di convincerci che presto Putin inaugurerà a Parigi una statua equestre di Alessandro I più alta della Tour Eiffel, la Federazione Russa non corrisponde al profilo della nemesi che da sempre ossessiona gli apparati a stelle e strisce: l’impero capace di controllare l’Eurasia, trampolino per annientare l’America (sic). Come il mostro di Loch Ness, gli atlantici giurano che esista anche se nessuno ha mai provato d’averlo visto.
È fuori strada chi si illude di trovarsi di fronte a un colpo di testa dell’irregolare Trump. Il presidente è molto più regolare di quanto appaia a est di Mar-a-Lago. O se si preferisce considerarlo matto, lo è talmente da trattare Putin non da pazzo criminale, in stile europeo, ma da bandito matricolato, con cui stipulare un simpatico deal tra falsari. Se devi fingere di aver vinto una guerra persa, non ti resta che abbracciare il finto vincitore.
Stanca d’egemonia globale, questa America si sfoga con gli “alleati” nordatlantici, dal Canada agli europei. «Parassiti», secondo Donald Trump. «Odio salvare gli europei», echeggia J.D. Vance – molto più di un vice – soccorso dal capo del Pentagono, Pete Hegseth: «Condivido totalmente il tuo disprezzo per gli scrocconi europei».
Inutile girarci intorno: l’Alleanza Atlantica non esiste più. Peggio, ne resiste lo scheletro. Vuoto d’anima, stracarico di armati e armamenti non si sa a quale scopo deputati. Come spesso fra chi non si ama più o si è sempre detestato senza darlo a vedere, il vincolo formale può durare a tempo indeterminato. Sogni diversi nello stesso letto. Come sempre quando un dio fallisce, a sconvolgersi sono soprattutto coloro che ne avevano assimilato la fede di puro cuore. Nel caso, gli ultradevoti eravamo noi italiani. Oggi ci crediamo furbi perché teniamo i piedi in tutte le staffe mentre i cavalli dressati al passo atlantico scalpitano imbizzarriti in opposte direzioni. Gli anti-atlantici di ieri gioiscono perché senza scartare di un millimetro si scoprono titolari di doppia assicurazione sulla vita quali “alleati” di russi e americani. Financo dei cinesi, se qualche grado di distensione si estenderà alla sfida sino-statunitense.
Non che americani, russi e cinesi abbiano scoperto di volersi bene. Tutti, più o meno malconci, hanno però bisogno di evitare una guerra mondiale cui nessuno sopravvivrebbe. Serve pausa lunga, mitigando la competizione e abbassando l’accompagnamento canoro di un paio di ottave. Per ascoltarsi. E provare a capirsi. Poi nemici come prima?
[Lucio Caracciolo, la Repubblica del 12 apr. 2025]
