–
Come tutti, al tempo in cui uscì (1976), ho visto La Gatta Cenerentola a teatro e me ne è rimasta un’impressione indelebile, per l’originalità della messa in scena, l’approfondimento sul costume e il dialetto napoletano, per le stesse musiche che contrappuntano l’opera, tanto che, a distanza di quasi cinquant’anni ancora mi tornano alla memoria… Canti come Jesce sole o La canzone delle sei sorelle (…son tutte belle, son tutte belle per far l’amor).
Naturalmente Roberto De Simone non è stato solo questo, ma ha ha fatto tante altre cose che hanno inciso profondamente nel modi della canzone dialettale e della musica in genere. In sua memoria due scritti, rispettivamente di Marino Niola, antropologo e Gino Castaldo, musicologo, entrambi da la Repubblica dell’altro ieri, 8 aprile.
Addio De Simone, la voce di dentro che suonava Napoli
di Marino Niola – Da la Repubblica dell’8 aprile 2025
Il grande compositore morto l’altro giorno, il 7 aprile, a 91 anni lascia una preziosa eredità sia musicale che teatrale: il talento di raccontare al mondo intero lo spirito e la carne della città. Nella “Gatta Cenerentola” ma non solo
Cercava tracce arcaiche nelle feste, negli antichi canti devozionali e nelle processioni
La verità di Napoli bisogna cercarla nella musica, in quell’armonia dissonante che attraversa cose e persone e consente di tenere insieme le voci della città. Era il mantra di Roberto De Simone, che in realtà ha continuato a cercare fino a ieri, quando il suo cuore ha smesso di battere il tempo. Aveva 91 anni.
Con l’autore de La Gatta Cenerentola la cultura italiana perde una delle sue figure più geniali e poliedriche. Era nato a Napoli il 25 agosto del 1933 in una famiglia di musicisti e teatranti. Suo nonno era stato attore nella compagnia di Salvatore De Muto, l’ultimo grande Pulcinella. Il padre faceva il suggeritore nelle sceneggiate. Lui, a quindici anni, prima ancora di iscriversi al conservatorio era già noto per il suo orecchio prodigioso. Era capace di eseguire a memoria il concerto K466 di Mozart e addirittura di riscriverne le cadenze. Una sera che si esibiva in casa di un’aristocratica russa scampata alla rivoluzione bolscevica suscitò l’ammirazione stupita di Renato Caccioppoli, il celebre matematico napoletano che gli disse: «Guaglio’ tu tieni proprio un suono stupendo».
In realtà la musica era una delle due metà del cuore del Maestro. L’altra è stata il teatro. Era convinto che l’una e l’altro custodissero gli archetipi della cultura napoletana, consegnata più all’incandescenza dei suoni, gesti e voci che non al riposo freddo della prosa. Di cui lui cercava le tracce nelle feste, negli antichi canti devozionali, nelle processioni ai santuari delle Madri miracolose, dove quei simboli, rimossi dalla cultura borghese riemergevano in tutta la loro potenza. In queste litanie, salmodie e liturgie il grande regista vedeva riaffiorare quel fondo arcaico sopravvissuto ai secoli. Erano anni in cui batteva palmo a palmo le feste popolari assieme a quel poeta della fotografia che è Mimmo Jodice. Il risultato è un libro indimenticabile come Chi è devoto. Fu questa vocazione da antropologo a fargli lasciare una carriera concertistica molto promettente, per dedicarsi alla composizione. Fu una fortuna per la nostra cultura che perdeva sì un valido pianista, ma in compenso guadagnava una figura unica di rianimatore culturale. Capace di ristabilire i contatti tra le voci alte e coltivate della cultura ufficiale e quelle basse, quasi tribali, del popolo.
In questo era in polemica con un mostro sacro come Eduardo che, ai suoi occhi, aveva contribuito alla morte del teatro napoletano autentico, mettendo al centro della scena una Napoli piccolo-borghese, incapace di guardare in faccia la miseria e il degrado, anzi estetizzandole e neutralizzandole. La Gatta Cenerentola nasce proprio in contrapposizione alla visione di Eduardo che guardava la realtà dall’alto di Palazzo Scarpetta, nella parte nobile della città. De Simone invece la città la sente e la respira dal basso dei quartieri, come la Pignasecca e la Sanità, che sembrano usciti dal crogiuolo barocco del Pentameron e di Giambattista Basile. O dalle Sette opere di misericordia di Caravaggio.
La Gatta debuttò al Festival dei due mondi di Spoleto il 7 luglio 1976 e fu subito un successo mondiale. In breve, conquistò un posto speciale nella storia del teatro novecentesco. Anche perché rappresenta il culmine artistico di un momento ricco di ibridazioni culturali e fermenti sociali, come fu quello tra gli anni Sessanta e Settanta. Il revival folk, la riscoperta della musica popolare, la rivalutazione delle tradizioni urbane e contadine. Tradotte però in un format internazionale, che si lasciava alle spalle ogni colore locale, ogni ruffianeria televisiva. Negli stessi anni De Simone aveva fondato la Nuova Compagnia di Canto Popolare, che portò la musica folk fuori dalla cornice marginale in cui era stata chiusa fino ad allora. Grazie anche all’incontro con musicisti e interpreti di eccezione attratti dal carisma artistico del Maestro, come Peppe Barra, Fausta Vetere, Eugenio Bennato, Carlo D’Angiò, Giovanni Mauriello, Patrizio Trampetti. Basti pensare che la versione di Tammurriata nera della Nuova Compagnia, uscita nel 1974, fu per molte settimane il disco più venduto e il brano più trasmesso dalle radio italiane.
La ragione più vera della fortuna della Gatta Cenerentola fu probabilmente la sua capacità di portare sulla scena i tratti più profondi di un’identità antropologica e di intrecciare le diverse tradizioni espressive — musicali, linguistiche, narrative, poetiche, comiche — che la cultura napoletana aveva intrecciato in una inimitabile dissonanza armonica facile da riconoscere e difficile da conoscere. In questo senso la Gatta Cenerentola è uno spettacolo mitologico. Soprattutto perché parla come il mito, racconta cioè una società senza farsi ingannare dai rumori dell’attualità, discendendo verso le sue sorgenti poetiche, verso quella profondità dove prendono forma anime e corpo di una cultura.
Questa capacità di calarsi nelle profondità dell’immaginario emerge da tutti gli spettacoli del Maestro. Dalla seicentesca Cantata dei pastori che RaiUno trasmise in prime time per due sere consecutive nel 1974, all’Opera buffa del Giovedì Santo ambientata nel mondo dei castrati partenopei. Fino all’incontro con il teatro di Viviani, il drammaturgo tellurico e rivoluzionario di cui De Simone diresse Eden Teatro e Festa di Piedigrotta. Fu proprio il lavoro di scavo condotto da De Simone sull’eredità culturale campana ad influenzare un gruppo di giovani artisti come i mai abbastanza compianti Annibale Ruccello e Enzo Moscato. E a rifluire come nuova linfa nelle stesse regie operistiche desimoniane, ospitate nei maggiori teatri mondiali, dalla Scala al San Carlo, dalla Staatsoper di Vienna al Covent Garden di Londra. Spesso in sodalizio con il grande Riccardo Muti. Resta celebre un Don Giovanni andato in scena a Vienna nel 1999, con la direzione di Muti, dove De Simone contamina il capolavoro mozartiano con le storie dei morti oltraggiati e vendicatori della tradizione popolare vesuviana. Queste anime erranti erano le sue voci di dentro. Presenze, potenze e parvenze cui lui dava del tu. Con questo genio caustico e barocco, che ha fatto di Napoli una capitale del realismo magico, dove niente è naturale come il soprannaturale. se ne va una delle ultime anime vive della cultura italiana.
[Marino Niola – Da la Repubblica dell’8 aprile 2025]
Da YouTube, La Gatta Cenerentola. Molte informazioni su quest’opera di De Simone si trovano nella voce relativa di Wikipedia.
–

–
Artista geniale fra tarantelle e tammurriate
di Gino Castaldo
Un gigante, unico, dirompente ed eccentrico. A di là dei tanti rispettabilissimi titoli accademici accumulati da Roberto De Simone nella sua lunga e fertilissima carriera, è bene ricordare come sia stato uno degli intellettuali più originali e innovativi che abbiano attraversato la musica italiana. Allo studio della musica classica aggiungeva una vocazione da etnologo, reale, vissuta sul campo, nei paesini, in ogni borgo dove c’era da registrare un cantore, da appassionato maniacale della tradizione folk nella quale era certo di trovare non le tracce di un’archeologia museale, quanto le basi per una nuova musica, come di fatto riuscì a fare con invenzioni straordinarie, a partire dalla formazione di un gruppo, la Nuova Compagnia di Canto Popolare, destinato a ribaltare gli stereotipi della canzone napoletana. La sintesi di questo lavoro potrebbe essere la loro celebre versione di Tammurriata nera, un classico reinventato sui ritmi autentici della tammurriata alla quale alludevano gli autori della canzone ma che prima di allora si cantava in stile esclusivamente melodico. Lo stesso vale per La rumba degli scugnizzi scritta da Viviani ispirandosi alle grida dei venditori e che De Simone riportò alla sua verità di strada, come una sinfonia di voci e ritmo.
Pochi ricordano che nel 1977 arrivò anche a incidere un disco in cui cantava, intitolato con solenne autoironia Io Narciso io, e che arrivò a completare un’altra opera mai tentata prima ovvero quella di portare in studio i cantori autentici della tradizione, fuori dal loro contesto originale, pubblicati in una serie di vinili imperdibili intitolata La tradizione in Campania.
Ma naturalmente l’atto in assoluto più geniale e influente della sua vita è stato quello di mettere la sua competenza accademica al servizio del teatro, riportando in scena lo spettacolo tradizionale de La cantata dei pastori ma soprattutto nella strepitosa invenzione de La gatta Cenerentola, opera sublime, dove magia, musica colta e folk convivevano in straordinaria armonia. C’era un elemento fondamentale ed eretico che lo distingueva dal mondo accademico al quale peraltro apparteneva a pieno titolo: la fiducia, anzi l’esaltazione assoluta del potere del ritmo, dei tamburi, delle percussioni che a Napoli sono intimamente fuse con i rituali religiosi di penitenza, con le danze tribali e più a sud diventano addirittura cerimonie di guarigione.
Tammurriate e tarantelle per De Simone erano una chiave essenziale e irrinunciabile per scardinare le convenzioni, come se il potere magico del ritmo potesse essere riportato in vita, come un esperimento di magia fatto entrare nei teatri, anche quelli più formali e blasonati, coltivando in fin dei conti una sua piccola riuscita utopia, ovvero che la musica non dovesse avere barriere e che perfino Pergolesi potesse ballare a ritmo di tarantella.
[Gino Castaldo, da la Repubblica dell’8 aprile 2025]









Teresa Denurra
10 Aprile 2025 at 19:58
Ho apprezzato molto il pezzo sull’addio a De Simone. Il riferimento alla Nuova Compagnia di Canto Popolare mi ha riportato alla mia adolescenza, alla bellezza di quelle musiche e alla straordinaria bravura di tutti gli artisti