segnalato da Sandro Russo da la Repubblica
–
“Il proclama di armistizio di Badoglio dell’8 settembre 1943 è l’annuncio dell’entrata in vigore dell’armistizio di Cassibile firmato il giorno 3 dal governo Badoglio I del Regno d’Italia con gli Alleati della seconda guerra mondiale, trasmesso al popolo italiano con un messaggio letto dal maresciallo Pietro Badoglio (capo del governo e maresciallo d’Italia) alle 19:42 al microfono dell’EIAR” (Wikipedia).
Abbiamo sempre commemorato sul sito la ricorrenza dell’8 settembre.
Questo ricordo è del 2018 ed è personale:
“Ho un posto di riguardo nella mia memoria per l’8 settembre del ’43 per essere una data che mio padre (1912 – 1991) qualche volta citava; una delle poche cose sfuggite al suo completo riserbo sui fatti della seconda guerra mondiale cui aveva partecipato da soldato semplice (“fante”, diceva lui) in Italia e in Abissinia.
La parte di cui – sebbene solo raramente – parlava, fu il suo ritorno a casa, appunto “dopo l’8 settembre” (…) – Cerca nell’indice del sito – 8 settembre – e/o continua a leggere qui e qui.
Di questo parla l’ultimo libro di Antonio Albanese, più attore che scrittore finora, e si capisce anche perché il libro sia stato recensito da Michele Serra, che anche lui ha avuto un padre “che non ne parlava mai”.
S. R.
Albanese. L’addio alle armi di zio Nino
di Michele Serra – Da la Repubblica del 30 marzo 2025
“La strada giovane”, il primo romanzo dell’attore, racconta il ritorno in Sicilia del fratello del padre da un campo di prigionia in Austria Migliaia e migliaia di chilometri a piedi attraverso le macerie d’Europa
– Un ragazzo di ventidue anni per mesi in balia della fame, della sete, del freddo e soprattutto della paura degli altri uomini
– “È capace di offrire ai tantissimi reduci le parole che non hanno potuto o voluto avere”
Antonio ce l’aveva in corpo, questa storia, da tutta la vita. Da quando, ancora bambino, sentiva parlare – ma poco, solo qualche frase, qualche accenno – di questo zio scappato nel cuore della guerra da un campo di lavoro in Austria, e tornato a piedi nel suo Paese sulle Madonie, Petralia Soprana. Un ragazzo di ventidue anni per mesi in balia della fame, della sete, del freddo e soprattutto della paura degli altri uomini, che nel disordine catastrofico della guerra diventano bestie sconosciute. Ce l’aveva in corpo, questa storia, e l’ha scritta nel più fisico dei modi, perché è il corpo delle persone, in guerra, che viene messo in gioco fino al terrore, allo sfinimento, all’annientamento. La cosiddetta anima diventa un lusso, si è solo corpi che cercano di non morire. Bere dove capita, mangiare quello che capita, dormire cercando scampo dal gelo e scappare, scappare, scappare, con il miraggio di tornare a casa perché solo la casa è il luogo nel quale la vita torna ad avere una forma e un senso. Perfino una normalità. Se sei cresciuto in una famiglia di panettieri, come Nino, il profumo del pane è la bussola che la memoria mette a disposizione, l’odore incancellabile da inseguire anche dove è stato cancellato – il pane, in guerra, non è pane, è un surrogato che mortifica. E le voci e il volto della madre e della giovane moglie sono l’approdo sognato, l’immagine interiore grazie alla quale metti un piede davanti all’altro anche se sei sfinito, anche se ti viene voglia di sdraiarti là dove sei e lasciarti morire. (Ma nei momenti di disperazione: ci saranno ancora, mia madre e mia moglie, saranno vive? È davvero esistita, la vita, prima della smisurata esplosione della guerra?).
Il racconto è veloce, diretto, senza fronzoli e senza fiato, centoventi pagine che trascinano il lettore dentro una fuga vertiginosa e ostinata, dentro la quale luoghi e persone sono leggibili solo nella chiave primitiva, potentissima, della sopravvivenza: se mi avvicino a quelli, mi sparano o mi danno da mangiare? E questo paesino dall’aria tranquilla, mi offrirà riparo o mi darà la morte?
Antonio Albanese, al suo primo romanzo dopo infiniti altri modi di esprimersi (cinema, teatro, satira), ha ricostruito il viaggio disperato di suo zio Nino (era il fratello del padre) sviluppando i pochi dettagli noti, come le lumache raccolte per sfamarsi; e per il resto affidandosi alla sua facoltà di narratore. E in casi come questi raccontare, colmando con la letteratura, con l’arbitrio della scrittura, ciò che non è stato detto, è un omaggio emozionante a chi non disse, a chi non raccontò, perché non aveva abbastanza parole o perché quelle che aveva non gli sembravano della misura giusta per raccontare la sua smisurata avventura, e sventura.
Come in molti sappiamo il silenzio è stato, per molte delle nostre madri e dei nostri padri usciti dalla Seconda guerra mondiale, una ostinata difesa contro memorie indicibili, cicatrici da occultare. Viaggi identici a quello di Nino sono toccati in sorte a centinaia di migliaia di europei, dalla ritirata di Russia alle meno note e a volte ignote ritirate individuali di soldati fuggiaschi, di prigionieri scampati per un soffio alla mattanza, di ragazzi che volevano disperatamente, ostinatamente, una cosa sola: tornare a casa, vedere se la vita normale era ancora una ipotesi verosimile o solamente un sogno che la guerra aveva cancellato per sempre, per non restituirlo mai più. Si mossero con ogni mezzo verso l’uscita da quel tunnel fragoroso e disumano, magari saltando su un treno per qualche tratto di binario non sventrato dalla dinamite e per il resto a piedi, sempre a piedi, per centinaia, migliaia di chilometri, nascondendosi nei boschi, cercando di decifrare i segni di un mondo sfasciato, impazzito, nel quale distinguere tra amici e nemici era diventato quasi impossibile.
L’Europa, specie negli ultimi anni della guerra, è stata disseminata dalle tracce di quei fuggiaschi, presto cancellate dal tempo e ancora più presto dimenticate pur di lasciare spazio alla vita che tornava a vivere, all’odore del pane e a tutti gli altri odori, e suoni, di un risveglio nel proprio letto.
Il racconto di Antonio Albanese è capace di offrire a zio Nino, e ai tantissimi come lui, le parole che non hanno potuto o voluto avere. Lo fa calandosi nel corpo stremato e affamato di chi poi, una volta scampato alla guerra e tornato a casa, non ha più voluto parlarne.
E si capisce, leggendo questo libro, anche qualcosa di più del teatro di Antonio, il suo teatro comico dalla fisicità straripante, nel quale nessuna parola ha il diritto di rimanere in scena se non diventa corpo. La povertà degli avi, la fame, la sete, la migrazione, la durezza materiale della vita, ecco che cosa scava le persone, dà fisionomia ai loro volti e significato ai loro sguardi, le rende tragiche e le rende comiche: siamo vivi, tutti quanti, perché siamo scampati alla morte, o qualcuno prima di noi è scampato, generandoci.
Il bellissimo titolo, La strada giovane, è una restituzione di giovinezza a persone che abbiamo conosciuto già adulte, già padri e madri, ma erano ragazzi ai quali i vent’anni furono rubati. Mio padre partì per la guerra in Africa a vent’anni e tornò a casa nel ’46 dopo una lunga e dura prigionia. Non ne parlava mai, l’unica traccia che conosco (come le lumache di Nino) di quella sua gioventù marchiata e reclusa è il racconto di un passero che, con i compagni di camerata, era riuscito quasi a addomesticare. Poi so che puliva locomotori, credo in Algeria.
Nient’altro.
Fortunato Nino che ha trovato, ottant’anni dopo il suo viaggio, qualcuno che ha saputo raccontarlo.
[Michele Serra – Da la Repubblica del 30 marzo 2025]
– Immagine in alto nella pagina: dall’articolo di Repubblica
Nota (a cura della Redazione)
Da leggere anche, sul sito: La storia raccontata dai film (3). ‘Tutti a casa’ di Comencini
