Ambiente e Natura

Nostalgia, solo per esperti

segnalata da Sandro Russo, un’intervista di Serenella Iovino su la Repubblica di ieri

Immagine di copertina (da la Repubblica). Il bosco del monte Serra a Calci (Pisa) dopo l’incendio

Ai temi che frequenta Serenella Iovino siamo molto interessati. Altrettanto ai personaggi – scienziati, antropologi, ambientalisti – che spesso intervista. Gli articoli di Serenella Iovino, i cui titoli sono mostrati nella schermata in fondo a questo articolo, possono anche essere cercati attraverso gli usuali motori di ricerca .
S. R.

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Intervista a Glenn Albrecht
Tu chiamale se vuoi eco-emozionidi Serenella Iovino

– Il filosofo australiano da tempo studia e cataloga i comportamenti e gli stati d’animo generati dal cambiamento climatico. Come la “solastalgia”: il dolore legato alla perdita di un paesaggio amato
– Sono forme di malinconia esistenziale, con aspetti emotivi più che psichiatrici. Però possono sfociare nella depressione
– Un altro sentimento è la “solifilia”: significa lavorare con gli altri per proteggere i posti a cui tieni È un sentire politico

Glenn Albrecht (screenshot from Thinkerview)

La terra ci manca. Che sia un paesaggio o il pianeta, un senso di smarrimento si abbatte su di noi quando i legami con luoghi che ci sono cari si rompono e ci ritroviamo all’improvviso naufraghi, malinconici e spaesati.
Non a caso Ernesto De Martino, nel saggio postumo La fine del mondo (1), paragona la fine di un paesaggio all’apocalisse. Quando un paesaggio scompare, scrive, il mondo precipita in un caos inabitabile. È la «patria esistenziale» a venire meno, e con essa la storia, le generazioni, il futuro. Lo stesso vale per la terra.
Oggi questo sentimento ha un nome: solastalgia. Glielo ha dato un filosofo australiano, Glenn Albrecht, che da anni cataloga (e battezza) emozioni ecologiche. Il suo ultimo libro, Earth Emotions. New Words for a New World (Cornell University Press) è un vero e proprio atlante di “psicoterratica”, parola con cui definisce l’insieme di emozioni che allineano il nostro sentire alle ferite del pianeta. Lo abbiamo incontrato e ce ne siamo fatte spiegare alcune, partendo proprio dalla più famosa.

Glenn Albrech. Earth Emotions. New Words for a New World

Albrecht, che cos’è la solastalgia?
«È il dolore per la perdita dei luoghi familiari, di ciò che ci consola. La parola viene da solace, che in inglese significa “conforto”, e “algia”, suffisso greco per “dolore”».

Che differenza c’è con la nostalgia?
«Nostalgia è la malinconia di chi è lontano da casa e non può tornare (nóstos in greco significa “ritorno”). La inventò nel 1766 uno studente di medicina alsaziano, Johannes Hofer, per descrivere la malattia che colpiva i soldati svizzeri in servizio presso guarnigioni straniere. La lontananza poteva essere così dolorosa da portarli al suicidio. Questa nostalgia la ritroviamo nella depressione dei rifugiati politici e climatici, o delle popolazioni indigene espropriate delle terre.
Con la solastalgia è diverso. Non siamo noi che ci siamo allontanati da un luogo familiare. È quel luogo che si è allontanato da noi perché ha perso i tratti che ce lo rendevano caro. È lo spaesamento tipico delle distruzioni che affliggono paesaggi ed ecosistemi».

Può essere considerata una patologia da includere nel Dsm, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali?
«Non credo che la solastalgia entrerà mai nel Dsm. È una forma di malinconia esistenziale, con aspetti emotivi e filosofico-ambientali più che psichiatrici. Però ciò non significa che non possa essere sfociare nella depressione».

Molti italiani che hanno perduto una casa o un paesaggio si riconosceranno in questo sentire. Lei come ci è arrivato?
«Da giovane ho vissuto a lungo nella Hunter Valley, una regione del New South Wales molto simile alla Toscana. Era bella, con le sue colline ondulate e pianure fluviali, ed era fertilissima: ci si poteva coltivare qualsiasi cosa. Poi, negli anni ’70, sono arrivate le miniere di carbone e le centrali elettriche, e con loro la devastazione del paesaggio e l’inquinamento. Il senso di perdita in me era fortissimo, ed è stata la filosofia a darmi le chiavi per comprenderlo.
L’organicismo dei filosofi tedeschi tra Sette e Ottocento mi ha trasmesso l’idea, ritrovata nella filosofia ambientale, di una natura vivente, mai inerte. Ma è stata la lettura di scrittori esistenzialisti come Camus a farmi capire la relazione tra terra, emozioni, casa, occupazione coloniale».

Tutte cose su cui l’Australia ha molto da dirci.
«L’Australia è vittima del colonialismo due volte. I primi a subirlo sono stati gli aborigeni, spossessati delle terre ancestrali.
Insieme a loro, però, oggi anche i discendenti dei colonizzatori sono vittime dell’onda lunga del colonialismo, che in Australia è rappresentata dalle multinazionali dell’industria mineraria. Il riscaldamento globale, qui così violento, deriva anche dalla combinazione di colonialismo e capitalismo. Ma i popoli aborigeni, con le loro pratiche e la loro spiritualità, ci danno una grande lezione di resistenza».

Ci spieghi.
«Sono lì da ottantamila anni, e rappresentano una delle culture documentate più antiche del pianeta. In termini di adattamento e sostenibilità, questo è già di per sé notevole. È indubbio però che le loro conoscenze ecologiche e astronomiche rivelano una comprensione profonda della fenologia, ossia dei cicli stagionali degli organismi viventi e la loro relazione con il clima e i cambiamenti ambientali. E poi c’è la loro cosmologia, c’è il Dreaming: “il tempo del sogno” (2), quello in cui il mondo ha cominciato a popolarsi di esseri spirituali sotto forma di animali, fiumi, montagne. Per gli aborigeni il paesaggio è abitato e segnato da queste presenze primigenie».

Perciò perderlo ha implicazioni profonde?
«Nella loro cosmologia c’è spazio per ogni essere naturale e umano, e c’è un intreccio strettissimo tra elementi fisici, etici ed emotivi. Le antiche storie del Dreaming parlano di come le nostre esistenze sono in un equilibrio delicato e potente con le forze della natura. Il Dreaming contiene tutti gli elementi tragici e trionfali della vita».

Qual è il ruolo degli esseri umani?
«A noi resta il compito di curare le nostre relazioni con gli altri viventi cercando di prendere ciò che serve a sopravvivere riducendo al minimo le possibilità di incrementare il caos. È anche questo atteggiamento che ha ispirato il mio concetto di Simbiocene».

Di che si tratta?
«È una visione simbiotica della vita sulla terra basata su conoscenze ecologiche e su un’economia non espropriativa ma, appunto, simbiotica con il pianeta. Il tema principale del Simbiocene è il senso di impegno e collaborazione con le altre forme di vita. Ciò favorisce l’emergere di emozioni positive».

È una risposta alla solastalgia?
«Sì, e all’Antropocene, che ignora le simbiosi di cui siamo fatti e ci consegna a un futuro senza speranza. Non per nulla una delle emozioni più diffuse tra i giovani è l’ecoansia».

Tra i giovani, dice: c’è una differenza generazionale tra ecoansiosi e solastalgici?
«La solastalgia si lega al confronto tra un prima e un dopo. È possibile che gli adulti ne soffrano di più perché il cambiamento spesso implica tempo.
L’ecoansia invece riguarda il futuro, per questo è più comune tra i giovani. Che secondo me soffrono di un ulteriore disturbo: l’ecoagnosia, una disconnessione cognitiva e sensoriale dalle realtà ecologiche che li circondano.
Significa che hanno scarsa esperienza della natura.
È simile a ciò che Richard Louv chiama “disturbo da deficit di natura” (3). In genere gli psicologi concordano che un’esposizione insufficiente alla natura può riverberarsi sulla salute fisica e mentale».

Curare la psiche per salvare il pianeta?
«E viceversa. Il nostro benessere psicofisico e la salute del pianeta sono interdipendenti, e lo sono anche emozioni e azioni. Io ho curato la mia solastalgia locale lavorando al recupero della Hunter Valley. Non è solo un fare, ma anche un sentire. L’ho chiamato solifilia. Significa lavorare con altri per proteggere i posti che ami. È un sentimento politico.
Come il Simbiocene, guarda ai legami ecologici e umani, curando insieme la terra e le nostre menti».

La pagina di Repubblica in file .pdf: La Repubblica del 9.10.2024. Eco-emozioni. Interv. di Serenella Iovino

[Intervista di Serenella Iovino a Glenn Albrecht, da la Repubblica del 9 ottobre 2024]

Note (a cura della Redazione)

(1) – Ernesto De Martino La fine del mondo  – Contributo all’analisi delle apocalissi culturali (2019); Piccola Biblioteca Einaudi Ns pp. XVI – 614; € 34,00
L’edizione definitiva della summa del vario e articolato pensiero di De Martino sulla filosofia della storia, sulle espressioni culturali della vita religiosa, sul ruolo e la funzione delle discipline psichiatriche ed etno-antropologiche.

(2) – Della coltura degli aborigeni australiani e de Le vie dei Canti di Bruce Chatwin si è scritto qui, sul sito.

(3) – Richard Louv (nato nel 1949) è un giornalista americano e un autore non-fiction.
Louv ha creato il termine  “nature-deficit disorder” “disturbo da deficit di natura” per descrivere le possibili consequenze negative per la salute individuale e  il tessuto socialeche si manifestano quando i bambini vivono dentro casa e privati del contatto fisico con il mondo della natura, specie se fragili e solitari.
Louv cita ricerche che riferiscono sintomi quali disordini dell’attenzione, obesità, calo della creatività e depressione.

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