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Il punto di vista dell’antropologo

a cura della Redazione

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Presentando il “Lunedì Rosso” de Il Manifesto dello scorso 23 settembre ne riportavamo il proposito dichiarato: Un Lunedì Rosso dedicato all’immaginazione del futuro. Quello fosco delle guerre e della tecnologia che si trasforma in strumento di morte. Quello dei cambiamenti climatici che richiedono interventi drastici in politica e in economia. Quello delle città insicure, dove l’abbandono pubblico e la privatizzazione selvaggia di spazi e servizi lasciano il campo libero alla rabbia e alla sopraffazione. In questi futuri oscuri c’è però uno strumento che non va abbandonato: la capacità di vedere e inventare mondi che ancora non esistono. Di queste visioni oltre il reale parla in una lunga intervista l’antropologo inglese Tim Ingold.
Ecco l’articolo, anche se in differita: meglio tardi che mai!

Tim Ingold

ExtraTerrestre
Immaginare il reale
di Daniela Passeri

Intervista – Incontro con l’antropologo Tim Ingold. Si è occupato a lungo di immaginazione in relazione anche alle questioni ambientali

Nelle serre dei Giardini Margherita di Bologna si allena l’immaginazione ecologica. Il nuovo centro culturale Serramadre, (serramadre.art), nato grazie alla rigenerazione di uno spazio pubblico abbandonato per iniziativa della cooperativa Kilowatt, si propone come luogo di dialogo tra l’arte e la scienza per esplorare – attraverso residenze, laboratori didattici, formazione, incontri pubblici e mostre – soluzioni per un futuro desiderabile. Per l’apertura, è stato invitato a tenere il discorso inaugurale l’antropologo inglese Tim Ingold, professore emerito all’Università di Aberdeen, che si è occupato a lungo del potere dell’immaginazione anche in relazione ai problemi ambientali. Lo abbiamo incontrato.

Professor Ingold, malgrado alcuni decenni di report scientifici, studi, ricerche sullo stato dell’ambiente e sui rischi per la vita su questa Terra, non c’è ancora consapevolezza dei problemi ambientali e le azioni intraprese non sono sufficienti. Perché?
Io credo che le persone che capiscono meglio come custodire e prendersi cura dell’ambiente sono quelle che nell’ambiente ci vivono. Quello che dobbiamo fare è trasferire di nuovo la responsabilità per la cura dell’ambiente dalle grandi organizzazioni, cioè da Stati, organizzazioni regionali, grandi istituzioni scientifiche o Big Science, alle popolazioni locali. Nelle alte sfere si ritiene che le popolazioni locali siano un po’ ignoranti, che non siano in grado di capire i grandi problemi scientifici, e perciò ci si aspetta che siano gli esperti, dall’alto, a risolvere i problemi. Una volta data questa responsabilità alle persone, io penso che se l’assumeranno. Se assistiamo a comportamenti irresponsabili da parte delle persone comuni è perché questa responsabilità gli è stata tolta. Gli scienziati spesso parlano anche di come cambiare il comportamento delle persone, come se fossero disposte a farsi modellare. Ritengo proprio che sia un approccio sbagliato. Noi dobbiamo imparare dalle persone che vivono sui territori, ascoltarle, dare loro strumenti, risorse e, ripeto, responsabilità.

Da «Big Science», dunque, nessuna possibile soluzione?
L’idea di risolvere certi problemi del pianeta con tecniche di geoingegneria, se anche fosse possibile, cosa che non è, porterebbe a una serie di disastri. È un’idea condivisa dagli scienziati responsabili, che sono una minoranza della comunità scientifica.

«Serramadre», dove ci troviamo, è un centro culturale per l’immaginazione ecologica. Cos’è e perché ne avremmo bisogno?
Di certo ne abbiamo bisogno, ma non ridurrei l’immaginazione a una categoria o a una tipologia: ecologica, scientifica, artistica. La questione che porrei è: cos’è l’immaginazione? Noi abbiamo bisogno di un senso dell’immaginazione che vada oltre la contrapposizione tra realtà e finzione. Ci hanno insegnato che ciò che è reale è oggettivo, fattuale, mentre ciò che non è reale è immaginato. Che l’immaginazione è un modo per portare all’esistenza mondi che non sono reali, che esistono solo nella mente delle persone. Io andrei oltre questa dicotomia: ridurre il reale al fattuale o ridurre l’immaginazione alla finzione, limita entrambi i concetti. Meglio arrivare a un senso più profondo della realtà che viene «immaginato» nel senso che la nostra percezione è quella di un mondo pieno di possibilità. Quello che chiamo «immaginare il reale» non è creare un’alternativa immaginaria a quello che abbiamo, ma passare da un senso del reale a un senso del possibile. Per vedere il mondo non come dato, ma sempre in divenire. Come il tempo meteorologico che, almeno in Inghilterra, non è mai uguale da un minuto all’altro e ci sorprende sempre. È immaginare il possibile. Qualcuno userebbe il termine «incertezza», ma io preferisco riferirmi al possibile, un’alternativa alla narrazione apocalittica. C’è maggiore speranza nella possibilità.

Questa immaginazione può servire a lenire l’eco-ansia e la paura per il futuro?
Una caratteristica curiosa del nostro tempo è quella di guardare al futuro come a qualcosa che ci viene incontro, come un soffitto che sta per caderci in testa. È davvero strano. Nel passato si è sempre pensato al futuro come a uno scenario che si apre fino all’orizzonte e anche oltre. Non certo come a qualcosa che ci limita. Dunque, abbiamo bisogno di pensare il futuro in modo diverso, che per me significa ripensare il modo in cui ci rapportiamo al passato. La tragedia di questa età moderna è che non prende il passato come un esempio da seguire. Immaginiamo i nostri antenati come svaniti nel nulla, ma noi stiamo seguendo la via che loro hanno tracciato per noi. È nostra responsabilità proporre ai nostri figli un mondo che amiamo, come ci ha insegnato Hannah Arendt: amare il mondo abbastanza da essere pronti a portare al mondo una nuova generazione. Invece i genitori tendono a descrivere ai loro figli il mondo come un luogo violento, pieno di insidie e preferiscono semmai proporne uno nuovo, fatto di intelligenza artificiale ed esperienze digitali, perché il vecchio mondo non va più bene. Così creiamo una generazione di orfani che non sanno chi sono e non hanno strumenti per starci in questo mondo. Credo che dovremmo sostituire l’idea dell’innovazione costante con quella di riparazione. Riparare è come tornare a casa, uno si ripara in un luogo. Significa raccogliere il passato e portarlo avanti, invece di buttare via tutto quello che abbiamo ereditato per qualcos’altro di nuovo. Così, finiamo per vivere in un cumulo di macerie, e lo chiamiamo progresso.

Cosa può essere, dunque, progresso?
Lascerei da parte questo concetto che del resto è relativamente recente, viene dall’Illuminismo. Abbiamo capito in questo secolo che progresso e sostenibilità sono in contraddizione, non possiamo averli entrambi. E se dobbiamo scegliere, mi sembrerebbe ovvio smettere di preoccuparsi del progresso e pensare alla continuità della vita. Per gran parte della storia, progresso ha voluto dire possibilità di vita per i propri discendenti, non certo accumulo di ricchezza, potere, guadagno, consumi. Questa corsa ci porterebbe ad una guerra costante per le risorse che non sono infinite.

L’arte contemporanea come può aiutarci a immaginare un mondo migliore? Come può essere trasformativa?
L’arte può avere un ruolo importante. Ma mi preme definire cosa intendiamo per contemporaneo. Letteralmente, significa «condivisione del tempo». Penso che questa condivisione non debba essere solo cronologica, non debba parlare solo all’oggi, ma possa attraversare il tempo per darci l’opportunità di dialogare idealmente con gli artisti che sono vissuti in epoche diverse. Come fanno, per esempio, gli aborigeni australiani che durante le cerimonie dipingono i loro corpi come facevano i loro antenati e così diventano in qualche modo contemporanei dei loro antenati. L’arte contemporanea il più delle volte esprime quella perdita di amore per il mondo di cui abbiamo parlato prima e dà sfogo a paura, frustrazione. È come un urlo, che dura il tempo di un attimo. Invece penso che abbiamo bisogno di arte che parli ma non solo al presente, ma a tutte le epoche, che sia universale.

Recentemente lei ha scritto pagine critiche sul lavoro intellettuale, in particolare quello accademico e sulle difficoltà di dialogo con il mondo dell’attivismo e delle pratiche. Ha una ricetta per superare questa separazione?
È vero, c’è una crescente separazione tra accademismo e attivismo, ne sento parlare ripetutamente. Penso che sia dovuto in parte alla professionalizzazione del lavoro accademico: un docente lavora ormai come un consulente per qualsiasi cliente ne abbia bisogno, indipendentemente da quello che vuole fare. Io penso invece che un vero studioso debba essere «amatoriale», nel senso che lavora per l’amore della sua disciplina, che diventa parte della sua vita, anche in senso etico. In questo caso, la separazione tra accademici e attivisti svanirebbe.

Di quale conoscenza si può alimentare oggi la politica?
L’accademia è diventata parte dell’economia neoliberista e le università sono istituti di ricerca e sviluppo per le corporations, soggetti a regimi manageriali in un sistema che è antitetico a quello della conoscenza. Nonostante tutto, penso che possano ancora essere riformate dall’interno, con maggior senso etico e in un contesto politico diverso. Ma come arrivarci? Proprio non saprei.

[Intervista di Daniela Passeri Da il Manifesto, “Lunedì Rosso” del 23 settembre 2024]

 

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