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Di patriarcato, di zie suore e di film…

proposto dalla Redazione, da la Repubblica di ieri

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Siamo spesso interessati ai temi che tratta Concita De Gregorio nei suoi articoli e al modo in cui li propone. Di tanto in tanto li riprendiamo sul sito per presentarli ai nostri lettori ed eventualmente su quegli argomenti stimolare un dibattito…
La Redazione

Il commento
Quel tempo andato dei padri
di Concita De Gregorio

Ma parliamo del Padre. Un tempo il Sovrano, il Patriarca. Mia zia Agostina viveva in clausura. Da bambina ho sentito la sua voce solo dietro una grata, quando una volta all’anno si andava a trovarla. L’aveva fatta suora suo padre, questo sapevo. Suo padre, mio nonno, aveva deciso il suo destino. Non era abbastanza bella da sposarla, non abbastanza forte per il lavoro della terra, non era lei quella che avrebbe studiato ma l’altra, Francesca. Che era più intelligente, degli otto figli la più svelta, perciò fu mandata in collegio perché diventasse maestra. Un giorno, ero già grande, la zia Agostina venne in città perché doveva operarsi agli occhi. Andammo a prenderla alla stazione degli autobus. Aveva i capelli corti e le scarpe da uomo, rideva. La vedevo per la prima volta, mi parve bellissima.

Penso ad Agostina, che chissà da quanto tempo è morta, come mai non l’ho saputo e non sono andata a salutarla, la penso da quando ho visto Vermiglio, il film bellissimo di Maura Delpero. Che racconta di una famiglia in un paese isolatissimo, in cima a una montagna di neve, nell’ultimo anno della seconda guerra. C’è una figlia suora, anche nel film. Ho pensato subito: ha di certo deciso il padre, come per zia Agostina. I figli muoiono neonati, nel film. Di malattie incurabili, e subito ne nascono altri. A volte portano i nomi dei fratelli morti, nomi da maschio a cui si mette la A se nascono femmine. Ermanna, per esempio. Di otto a mia nonna ne rimasero tre. L’ultima, mia madre. È con lei che sono andata a vedere questo film.

Sembra un tempo remoto, ma no: è stata la nostra storia dunque è la nostra vita. È con lei, con mia madre, che tornando a casa silenziose le ho detto, a un certo punto: ma come è stato possibile, mamma, che nell’arco di un’esistenza sola, la mia, si sia passati da quel mondo — l’Ordine del Padre, un ordine dispotico illiberale e certamente ingiusto — a questo tempo. Il tempo del Disordine. Cosa non ha funzionato, in questo cammino verso le libertà. Si parlava difatti prima, nel pomeriggio, di uomini che cantano canzoni orribili e sessiste, la tua tipa, la mia, pronomi di possesso, di gente che dispone di tutto e non sa cosa farsene, di donne e bambini usati per l’insulto che produce ulteriore fama e poi di ministri feriti alla testa, di amanti, di governo, di donne al governo che scelgono uomini inadatti, incapaci. Le faccende del giorno. Poi, quel film. Una macchina del tempo, un congegno perfetto di memoria. “Non lo so”, ha detto dopo un certo silenzio mia madre, che è nata sotto una dittatura ma è cresciuta libera. “Non lo so. È che la libertà è difficile da organizzare. Bisogna essere molto bravi. L’ordine è più facile, il tuo destino è quello e non discuti. Quando cominci a discutere devi essere capace di farlo. Devi definire da sola il tuo posto nel mondo e difenderlo. Ma non lo so, non chiedere”.

Non è per dire che si stava meglio prima, che scrivo queste righe. Si stava immensamente peggio quando un padre decideva di mandarti in convento, o a fare la serva dei signori, o ti chiudeva in casa ad aiutare tua madre sempre incinta. È per domandarmi cosa è andato storto, in questo tempo breve di conquiste gloriose che non ha prodotto, certamente non ancora, una società giusta, uguale, libera e sicura. Cosa abbiamo perso e cosa abbiamo guadagnato. Dove c’è da lavorare ancora e torno al film, perché in quel film magnifico c’è qualcosa di magnetico, qualcosa di calmo che calma. La vita corre come le stagioni, si vive e si muore con uno strazio che non è mai tragedia. Si attraversa la morte senza morire.

Ascolto le canzoni, se così si possono chiamare, di giovani uomini che si insultano per il mezzo di figli compagne trattate come appendici, leggo migliaia di commenti, penso a che idea di relazione, di rispetto fra persone potrà mai farsi un ragazzino che si entusiasma per questa battaglia, dissing si dice in inglese. È un gioco, è solo musica, non vorrai mica censurare la libertà di dire in musica. Figuriamoci, certo che no.

Torno al Padre. Nel film è Tommaso Ragno, attore strepitoso, padre di ogni padre. Parla pochissimo. È il maestro del paese, anche dei suoi figli. È duro, è solo. I ragazzini fanno ginnastica nei banchi. Due movimenti con le braccia, un paio di flessioni prima di cominciare le lezioni. Anche io in prima elementare lo facevo, mi sono ricordata. Non era due secoli fa, ero io in prima elementare. Era quando mia madre lavorava tutto il giorno e poi scriveva manifesti per l’assemblea della sera, era quando mio padre cucinava e puliva perché mamma aveva da fare. Era l’alba di un tempo che sembrava arrivare più libero, migliore. Poi non so.
Vermiglio, andate a vederlo, custodisce un segreto che parla di noi oggi. Qual è il bivio che abbiamo mancato.
In cosa, dove la guerra contro il patriarcato, il maschilismo, la tirannia del Padre ci ha condotti in questo tempo dove nulla è giusto né sicuro per nessuno. Era feroce allora, è diversamente feroce oggi. La libertà è difficile da organizzare. Sì. Richiede responsabilità, senso condiviso di equità e giustizia, cultura e compassione. Qualcosa di questo manca. Parecchio, direi. C’è ancora da fare.

[Di Concita De Gregorio. Da la Repubblica del 22 settembre 2024]

Un momento delle riprese di Vermiglio (2024) di Maura Delpero

Le immagini contenute nell’articolo sono la locandina e foto di scena dal film che l’Autrice cita e consiglia di andare a vedere.

 

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