di Francesco De Luca
Un ringraziamento sentito a Giancarlo Giupponi per il dono che ha fatto a noi ponzesi col suo video.
Lo faccio inviandogli, tramite Ponza-racconta, un racconto ambientato al Faro della Guardia.
Il racconto è inventato ma i riferimenti alla realtà fattuale e umana sono ancorati alla realtà perché il mio legame col faro e la sua poesia, sebbene non diretti ma di seconda battuta, sono reali.
Spero che la lunghezza dello scritto non allontani i lettori.
Il Faro della Guardia
Dall’alto sembra un rampino a quattro uncini che s’aggrappa al mare. E’ lo sperone che dal monte Guardia si protende nell’acqua a formare un faraglione. Vi edificarono infatti nella parte alta un grande faro.
Filippo era uno dei fanalisti o meglio, come lo chiamavano i compaesani, ‘u lanternaro. Il paese distava un’oretta a piedi e il sentiero per accedervi via terra non era agevole. Tutto zigzagato e insicuro a causa dei massi che si staccavano dalla parete alle spalle. Via mare la cosa era più facile ma l’attracco fra gli scogli era precario per cui soltanto con la bonaccia poteva essere sfruttato.
Le famiglie dei fanalisti vi dimoravano stabilmente e, quando occorreva, si andava in paese.
Una vita di stenti? Una vita beata, invece, perché nulla occorre di ciò che non si desidera. E Filippo aveva tutto. Quell’incarico gli forniva il sostentamento per la famiglia: moglie e quattro figlie. Aveva sperato tanto in un maschio, ma anche l’ultima era nata femmina. Appena lo seppe andò dalla moglie Giuseppina che lo anticipò: “Vedrai, il prossimo sarà un maschio!” Bastò questo, Filippo prese quel fagottello e con impaccio se lo accostò al viso. Un attimo, e lo ridiede alla moglie. La sua felicità non era stata incrinata.
Aveva una barchetta a vela con la quale si portava lungo la costa a trarre dai fondali il pesce, che arricchiva la cucina e gli dava credito presso i compaesani. Perché era considerato un bravo pescatore. Anzi, meglio, era considerato una persona di cuore. Filippo aveva della vita una visione non molto ampia né molto complicata: s’era fatta l’idea che fare il bene gli avrebbe portato vantaggio. Tutto qui.
Dopo le peripezie affrontate durante la guerra aveva avuto il trasferimento nella sua isola. Qui possedeva anche un po’ di campagna, che coltivava senza lesinare fatiche, raccogliendovi il massimo.
E’ chiaro che tutto questo gli era permesso perché il suo lavoro non lo occupava molto e, di conseguenza, aveva tempo a disposizione.
Al far del mattino, quando la luce del faro non era più indispensabile per la sicurezza dei naviganti, usciva e andava in paese per ritirare la posta, accudire gli animali, andare in farmacia. La famiglia restava al faro. Dove non mancava niente. Un grande serbatoio raccoglieva l’acqua piovana e la metteva a disposizione delle donne, la legna era stata accatastata, dal forno ogni martedì usciva il pane occorrente per la settimana. C’era poi uno stanzone che fungeva da dispensa , dove tutto il cibo che poteva essere conservato trovava posto. La ventilazione non mancava.
Lo scoglio si erge, isolato, cento metri sul mare. Nella parte piana fu costruito il palazzetto con il faro. Un muro delimitava lo spazio utile. Oltre c’era il dirupo. Le figlie in quello spiazzo disegnavano la campana e vi saltavano, fino a quando un altro passatempo non sopravanzava, e allora tutte a nascondersi. Ogni cantuccio, ogni spuntone di roccia era buono per rannicchiarsi. Quel minuscolo luogo si slargava: le piccole a rincorrersi fra le porte e gli spigoli, le signorinelle un poco sfaccendavano in casa e un poco badavano alla distesa del mare che s’apriva intorno, piatta e immensa, e che talora attirava per il passaggio di qualche barca. La mamma era indaffarata fra i fornelli e la dispensa, con un occhio alle ragazze e uno al sentiero. Quando in esso si distingueva appena la sagoma di un uomo era il momento di preparare la tavola per il pranzo.
Filippo ritornava dal paese col sacchetto sulla spalle pieno di qualcosa che certamente avrebbe indotto gioia nei familiari. Qualsiasi cosa rallegrava, financo i medicinali erano oggetto di meraviglia o motivo di scherzo.
Ciò che provocò una inconsueta animazione nella vita al faro fu la costruzione della nuova via. Il vecchio sentiero era un inferno giacché s’era dovuto adattare alla natura friabile della scarpata. Per cui allungava il percorso e lo rendeva più gravoso in quanto si portava in alto, lì dove il dirupo si ergeva a picco, e poi scendeva in tornanti. I genieri della Marina Militare invece disegnarono una strada più comoda, che tagliava a mezzo la scarpata e procedeva in discesa. All’ imboccatura del faraglione previdero perfino il taglio di un tunnel, sì da rendere quella strada un capolavoro.
Quando finirono i lavori il tutto apparve opera veramente degna di menzione. La strada era larga, pavimentata, con una pendenza gradevole. Quando iniziava la salita si incuneava fra le rocce, ne usciva, disegnando un’impronta dal tratto sicuro. Perché la montagna alle spalle e l’intero dirupo a precipizio sono di incerta conformazione, da cui il nome scarrupata ovvero che frana, mentre la roccia del faraglione ha una trama a rete, simile a un favo di pietra, scuro e duro, che non si scalfisce e resiste.
Resiste alle ventate e alle bufere. Filippo le sentiva arrivare dai canti lamentosi delle berte. Dopo le scorribande ritornano a sera fra quegli anfratti e nel buio si chiamano. Coi versi di un neonato. Nella prima sera è un ossessivo risuonare. Il fanalista eseguiva il suo lavoro con scrupolo. Caricava la molla che serviva a far ruotare la lanterna per l’intera notte. Ne ungeva gli ingranaggi affinché non si ingrippassero. Controllava il livello del petrolio che doveva alimentare la fiammella, poi si portava nella cupoletta in alto. Gli specchi erano tirati a lucido perché la vita dei naviganti dipendeva dalla sua meticolosità. Il faro infatti segnala nel suo periodo di luce sia un gruppo di scogli affioranti a un miglio dalla costa, sia l’isola di Palmarola a sei miglia a sud, sia il grande corpo dell’isola di Ponza. Accese il lumicino, ingrandito fuori misura dalle lenti e, nel mentre esso iniziava la sua girandola notturna, il vento da sud dal vasto mare prendeva corpo. Sbatteva sullo scoglio con flemma, ma già dietro altre folate arrancavano, le berte ormai tacevano e l’ostro iniziò a cantare. In casa, già tutti erano in casa; ciascuno col suo da fare nella grande cucina. Sulla tavola le bambine giocavano con le figurine, Filippo aveva appeso ad una sedia un mazzo di rete e, sedendovi di fronte, con la cucella andava aggiungendovi maglie. Soltanto la figlia grande, Elena, era salita in camera da letto a nutrire i sogni d’adolescente con la lettura di storie d’amore. Giuseppina puliva la verdura e intanto parlava col marito, mettendolo a parte dell’accaduto del giorno. Apparentemente nella casa si consumavano le abitudini giornaliere, in verità tutto si faceva affinché la voce del vento non assumesse toni da paura. Perché ora i sibili non davano tregua. “ Dik, bisogna tirar dentro Dik!”
Il cane stava rincantucciato a ridosso del muro. Al richiamo con la coda esultante entrò in casa. Bisognava passare la notte e per il fanalista essa non si presentava calma. Perché è nelle nottate come quella che il faro e la sua luce significano dare speranza a chi sul mare combatte. E allora tutti si andava a letto. Filippo si attardava a controllare che la forza del vento fosse tenuta lontano dai meccanismi del suo faro. S’aggirava come un’ombra Andava a scrutare dai finestrini e, stringendo come due fessure gli occhi, cercava nella grande massa del mare un segno. Non ne ricavò niente e andò a dormire. Un sonno leggero; ad ogni squasso di finestra un balzo; ad ogni tentennata un’attesa. Poi ci fu un colpo. Giuseppina disse lucida: “Vai a vedere cosa è successo!” L’uomo si alzò e corse subito nella cupola. Tutto a posto. Eppure il tonfo c’era stato. Guardò fuori e vide una cosa agitarsi. Aspettò l’aiuto della moglie, che tenne ferma la porta da dentro. Uscì e tornò con un grosso uccello. Nel turbinare della bufera s’era indirizzato verso la luce, sbattendovi contro. Era intontito e si dibatteva. Dik dovette essere rimproverato perché dava all’uccello occhiate aggressive. Questo fu rinchiuso in un ripostiglio per non alimentare ulteriori trambusti. Le figlie non dovevano essere svegliate. Ma nessuno dormiva già più. Il fragore impediva al sonno di quietarsi e il sonno impediva al fragore di prendere possesso delle menti. Al mattino fu evidente che la voce del mare sopravanzava quella del vento. Ai piedi dello scoglio, sui massi della scarrupata, nell’intero arco visivo le onde si accalcavano, si rincorrevano fino a che, irate, bavavano bianche. Sulla costa. Con un tuono continuo, basso, poderoso.
In casa tutta l’attenzione era data all’uccello dal lungo collo. Che fu legato al tavolo in modo che i bambini potessero toccarlo e lui potesse sottrarsi un poco a quei riguardi non sempre bonari.
‘U lanternaro, dopo essersi accertato che non v’erano stati danni andò in perlustrazione per la strada. Erano trascorsi pochi anni dalla sua costruzione e già la montagna la dissestava. Dal dirupo s’erano staccati enormi massi. Alcuni nel rotolare avevano bucato il lastricato, ma uno s’era fermato proprio nel mezzo. Alto tre metri, largo altrettanto, sembrava un punto intorno al quale ci si era divertiti a disporre il pavimento. Doveva essere visibile anche dal mare. E lo era davvero, così stagliato nel mezzo di una striscia bianca che sega lo scoscendimento del monte Guardia, tanto che Filippo lo assunse come segnale di pesca. Là, fuori un miglio dalla punta del faraglione, guardando terra devi tenere questo masso a filo col faraglione a destra, mentre a sinistra devi aprire la vista degli scogli di Lucia Rosa. A 250-300 metri di profondità c’è una secca. Se la centri ti assicuri la cattura delle pezzogne. Filippo l’aveva scovata al solito modo. A chi trascorre molte ore a pesca avviene di incontrare un posto che sbalordisce per la pescosità. Per caso vi si imbatté e subito la memorizzò con segnali noti solo a lui. Cosicché, quando in primavera la bonaccia inviava un richiamo irresistibile, Filippo lasciava la terra per intrattenersi col mare. Il suo non era un rapporto duro come fra chi lotta per la vita. Il suo andare a pesca aveva un tornaconto preciso e nemmeno trascurabile ma non era ossessionato dalla resa. Il suo appagamento stava nell’andar per mare. Sulla barchetta alzava la vela e s’allontanava. Andava da solo e questo rendeva ancor più intense le sue sensazioni. Si lasciava alle spalle, sulla banchina, la porta della panetteria semiaperta, ché Giovanni vestito di bianco entrava e usciva; Silverio che scrutava attento le acque poco profonde con in mano il tridente, pronto a lanciarlo sul polpo, resosi visibile. Dall’alto della collina il raglio di un somaro induceva gli occhi a posarsi dove s’alzava il filo bianco di un fumo di paglia.
Non appena in vista del suo faro scorse dal muro agitarsi i colori dei fazzoletti che le figlie muovevano. Diresse verso quella secca e tutto d’intorno sembrò sommergerlo di incanto: le acque brillavano e il vento spirava quel tanto che asciuga il sudore e rinfresca. Da una parte le rocce del faraglione, il palazzotto tagliato a scacchi bianco e rosso, il cilindro del faro. Dietro, a difesa, il monte.
Le pezzogne non sono pesci infidi e nemmeno spazientiscono. Stanno a così tanta profondità che se si coglie la secca altro non si deve fare che buttare la lenza e attendere. Poi si tira su e con un po’ di fortuna, ad ogni amo, è abboccato un pesce.
In mare nessuna voce, nessuna premura, nessuna ambascia che a terra opprime. In mare si fluttua e l’animo guarda in viso l’inconsistenza, l’inaffidabilità, la casualità dell’esistenza.
Il secchio si riempiva di pesci mentre il sole tracciava il solco nel cielo e tutt’intorno la natura fremeva.
Il faraglione della Guardia era sempre lì ad attenderlo ansioso. Gli parve di scorgere un drappo rosso agitarsi. “Mannaggia… s’è fatto tardi!” Tirò su la lenza, mise mano ai remi, ché vento non ce n’era, e drizzò verso terra.
Il drappo per un altro poco sventolò, poi nient’altro. Chiamavano lui.
Giuseppina lo accolse raggiante. Con tutti quei pesci avrebbe rinsaldato molti legami sociali. Una parte al medico di famiglia per tenerselo amico; un’altra parte a quella poverina che gli era morto il marito da poco; un’altra alla mamma. Sempre così, coi pesci, sempre a dividerli per rinnovare amicizie, riparare a mancanze, bene augurare o sdebitarsi. Il tutto sapientemente gestito da Giuseppina, in questo servizio, supremo artefice.
“Venite a vedere, guarda che tramonto !” Le ragazze gridano. Filippo si prende la più piccola, Ornella, sulle spalle, per farle superare la barriera del muro. Dal faraglione un ponte rosso parte e s’inoltra per l’immensità fino… fino…l’indice della bimba più in là non va.
Oggi il Faro della Guardia è disabitato. Signoreggiano i gabbiani, padroni dei luoghi rigettati dagli uomini.