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Un rumore cupo. Fa levare gli occhi dalla terra che si sta nettando dall’erba infestante.
La vista spazia da Calacaparra alla guglia della chiesetta del Cimitero. Il mare riempie il restante spazio.
Nulla.
Eppure nell’aria corre un suono cupo che nel fluire si smussa, diviene tondo.
Finché non buca lo spazio e compare la prua della nave Quirino. La sagoma blu intenso, come la superficie del mare. Ancora tranquilla, in questo novembre intrigante.
Viene la nave e turba la quiete del paese. Si muovono automobili verso l’attracco, e i furgoncini di chi attende merce, e le persone. Diversamente interessate a chi ha lasciato il continente per raggiungere uno scoglio lontano, forse una meta, forse una tappa dell’esistenza, forse una fuga.
O un rifugio.
Di là dal mare c’è tensione. I contrasti uccidono, e il sangue sporca le coscienze.
Siamo responsabili delle atrocità anche se cerchiamo di non vedere, e tacitiamo i tormenti rintanandoci nel quotidiano.
Sembriamo saziarci di malinconie, di serenità, di interessi che sedano soltanto il bisogno di sfamarci ogni giorno. Rimane dilaniato lo spirito.
Novembre, dolciastro sulla pelle, aspro nell’animo.
La dote dell’umanità è calpestata dalla ferocia dell’animalità. Con la complicità della cultura.
Rompe l’ordito la nave. A ricordare che l’isolamento è solitudine se si sceglie di non ascoltare il vento dei lamenti di chi è oltraggiato dalla violenza del vicino.
Come la nave rompe lo specchio dell’imperturbabilità dell’isola così la responsabilità dell’umanità non lascia indenne nessuno.