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Ho incontrato Barbie…
tardi in verità… Quando ero bambina le bambole avevano la forma di neonati o di bambine; tutt’al più chiudevano le palpebre! Il loro scopo era di inculcare il senso della maternità. La mia prima bambola seduta accanto a me, a un anno e mezzo, poco più grande di lei, in una foto in bianco e nero, era di pezza e si chiamava Filippa!
Barbie, Barbara Millicent Roberts, è nata infatti nel Wisconsin nel 1959, quando avevo quasi 12 anni. Fu messa in commercio – dopo un massiccio battage televisivo – dalla casa di giocattoli Mattel, azienda nata in California nel 1945, il 19 marzo 1959.
Fu la moglie di uno dei co-fondatori, Ruth Handler, che suggerì la creazione di una bambola che avesse il corpo di una giovane donna.
Alla sua prima apparizione in un negozio si presentava con un costume zebrato, i lunghi capelli neri (ma poi furono poi sempre biondi) raccolti in una coda. Le venne dato il nome della figlia di Ruth e fu materialmente realizzata in Giappone.
L’idea di una bambola dal corpo di donna era molto astuta: permetteva l’identificazione non in un ruolo ma nella bambola stessa, nella sua identità. Fine precursore e psicologo è stato Alessandro Manzoni che regalò a Gertrude, destinata al convento, una bambola vestita da suora.
Come in una serie televisiva Barbie fu dotata di tante sorelle e di un fratello. In seguito, le procurarono un fidanzato che ebbe il nome del figlio di Ruth, Kenneth: Ken.
Essendo comunque dei giocattoli destinati a delle bambine, Barbie e Ken erano assessuati. – “Non ho vagina” – annuncia Barbie – nel film, catapultata nelle contraddizioni del mondo reale!
Barbie e Ken sono due giovani americani tipici: alti, biondi, belli, sportivi! Sono nutriti con carne e vitamine. Scoppiano di salute. Rispecchiano l’ideale pericoloso della razza pura di terribile memoria. Anche se, in seguito, la Mattel creò delle Barbie e dei Ken di tutte le etnie.
Dunque… sono nata troppo presto per giocare con le Barbie: non esistevano. E dopo? Dopo ho avuto due figli. Le bambole non erano di casa. Eccetto per un breve periodo quando mio figlio più piccolo, dopo avere visto una Barbie a casa di un’amica, me ne chiese una. Voleva… toccarle i seni! Con grande scandalo di alcune madri che mi accusavano di pervertirlo, lo accontentai.
Barbie rimase solo una settimana.
Negli anni 2000, una mia nipote si innamorò delle My Doll e l’altra delle Loll che univano agli accessori il brivido dei giochi di azzardo visto che erano vendute in scatole chiuse e non sapevi se avresti trovato un doppione.
Ritrovai Barbie al Vittoriano, a Roma, in una mostra – Barbie. The Icon – del 2016.
Barbie vi era presente in tutte le professioni; si presentava pure sotto le vesti di attrici famose come Liz Taylor, Marylin Monroe e Audrey Hepburn. C’erano dei pezzi iconici (dal 1959 al 2016). Portarci le nipoti fu per me solo un pretesto!
Allora, come rinunciare a vedere il film della regista Greta Gerwin uscito quest’anno?!
Ho scelto una visione in lingua originale perché intuivo che la lingua americana era l’unica che potesse tradurre l’atmosfera di euforia del contesto storico. E ho avuto ragione. La voce della narratrice, Helen Mirren, ed i saluti stereotipati, positivi e ottimisti di Barbie dovevano essere ascoltati in un americano ripetitivo e basico.
Sommersa nel rosa, ho gustato i riferimenti cinefili (non voglio togliere la sorpresa dell’incipit a chi non ha visto il film, ma l’inizio è straordinario!) e l’atmosfera di perenne presente – che raggiunge quasi il concetto di eternità – di perenne efficienza, gioia, festività, di perenne innamoramento iniziale. Ho ammirato la professionalità dei due protagonisti: Margot Robbie e Ryan Goslin, totalmente calati nei loro ruoli. In genere sono i personaggi digitali che imitano gli esseri umani, qui gli attori sono talmente bravi da sembrare di plastica!
Ma sono, soprattutto, due riferimenti alla letteratura dell’infanzia che mi hanno intrigata.
Nella coppia madre e figlia che vive nel mondo reale, in una California che è in tutto uguale al Barbieland, è la madre che riesuma la Barbie della figlia che lei non vorrebbe vedere crescere, è lei la Wendy che sogna l’isola che non c’è, mentre la figlia non vede l’ora di appartenere al mondo adulto; il viaggio di Barbie nel nostro mondo è un viaggio di conoscenza per mettere termine ad un errore che minaccia la perfezione del suo mondo.
Barbie nel reale conoscerà la sua creatrice, colei che le ha dato vita, e l’azienda che l’ha messa sul mercato rendendola perfetta e famosa.
Will Ferrell, nel film il capo della Mattel (chi non lo ricorda in Vero come la finzione? Qui sul sito)
È Ruth che la aiuterà nel suo desiderio di abbracciare l’imperfezione, di diventare umana (desiderio annunciato già dalle sue ripetute sensazioni di morte, laddove la morte non esiste). Barbie, come Pinocchio (1), ma in una favola che non è nera e che non fa paura, si trasformerà.
Certo ci sono anche i messaggi femministi, espliciti, forse troppo, ma è questo percorso di trasformazione della madre e di Barbie – percorsi contrari da o verso il mondo immaginario dell’infanzia – che mi ha interessata di più.
E Ken? Bello, tenero, fedele, protettivo e ingenuo. Attratto dalla virilità dei film Western? Ha solo un ruolo da comprimario: in fondo “è solo Ken“!
Il mondo perfetto dove evolvono Barbie e Ken rappresenta, a mio avviso, una critica dell’american way of life come lo percepivamo noi europei degli anni ’60: belle case dotate di tutti i confort, belle macchine, vita di successo. Occultando la povertà e l’infelicità. Un mondo di celluloide.
Dunque un film più profondo e più complesso di quello che appare (2). D’altronde la Mattel ha investito 145 milioni nella sua realizzazione e 100 milioni nel suo lancio!
Operazione riuscita, per me, perché il film ha ritmo, è allusivo e gli attori sono molto bravi. That’s entertainement! E il cinema è anche questo!
Note
(1) – Come Pinocchio che alla fine della storia chiede di diventare un bambino vero, così anche Barbie chiede di diventare reale
(2) – Non è un caso che la circolazione del film sia stata vietata in Iran e in Arabia Saudita
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Appendice del 17 agosto (cfr. commento di Sandro Russo)
La recensione di Antonio Monda: A. Monda. Barbie vince la scommessa. Da la Repubblica
Sandro Russo
17 Agosto 2023 at 17:56
A parte la considerazione che i film in sala vanno considerati benevolmente tutti, a prescindere, come gli animali in via di estinzione, un giudizio vorrei comunque esprimerlo. Non l’ho particolarmente apprezzato. L’ho sistemato nella categoria dei film falsi e patinati, impeccabilmente costruiti per avere successo e vincere gli Oscar (insieme a La La Land, film del 2016 scritto e diretto da Damien Chazelle con lo stesso attore co-protagonista, Ryan Gosling, guardacaso; ma non è che ce l’ho con l’attore, poverino!)
È che mi è sembrato un film strumentale alle flessioni degli introiti della Mattel, che se comincia a perdere colpi con le bambole, recupera alla grande con il film; ruffiano e stucchevole per il femminismo di maniera degli americani.
Confortato in questo dal giudizio dell’altra Patrizia (Pat Pat) che alla domanda: Come ti è sembrato il film? – mi ha risposto: – Nella prima parte mi sono molto divertita, poi il femminismo cretino dei moderni americani mi ha annoiato.
Ma a parte i gusti personali, l’aspetto della critica che più mi ha interessato è stato un altro.
Una volta le recensioni si facevano sulle qualità artistiche di un film; ora la critica si fa sui meriti commerciali. Non è un cambiamento da poco!
Propongo uno scritto sul film di Antonio Monda che pure è uno bravo, gran conoscitore di cinema.
La sua recensione, da la Repubblica, è allegata in file .pdf all’articolo di base. Riporto qui la frase monstre con cui conclude l’articolo: “Se ami Barbie questo film è per te; se odi Barbie, questo film è per te”.