proposto da Sandro Russo
Per atroce assuefazione e forse anche una quota di distorta auto-conservazione, non si parla più – su queste pagine e nella vita di tutti i giorni – della guerra in corso in Ucraina da 502 (!) giorni.
Ripropongo il tema con questo articolo di Luigi Manconi, letto sul giornale di ieri, che riporta un caso estremo di rapporti interpersonali stravolti dalla guerra. Non così infrequente come si potrebbe credere.
L’invasione russa
Separarsi per l’Ucraina
di Luigi Manconi
Circa un anno fa, una coppia di amici di Genova decise di separarsi “a causa dell’Ucraina”. L’invasione di quest’ultima da parte della Russia aveva determinato tra i due una tensione assai aspra, che metteva in crisi antiche solidarietà, profonde convinzioni, comunanza di idee e di affetti, scelte di campo e opzioni morali. Va da sé che pesava, eccome, anche una crisi sentimentale latente, ma i carri armati della Federazione Russa funzionarono come detonatore. All’epoca quella rottura mi dispiacque molto – un legame che si spezza suscita sempre rimpianto – ma in qualche modo, e paradossalmente, mi rassicurò. Considero la guerra in Ucraina un evento talmente dirimente ed epocale (per una volta è giusto utilizzare un termine tanto abusato) che non mi sorpresero troppo le conseguenze prodotte nell’ambito della vita emotiva e delle relazioni, anche le più intime. Mi sembrava che quella coppia prendesse talmente sul serio una cosa seria, come la guerra ai nostri confini, da rischiare la propria stabilità psicologica.
Poi, qualche settimana fa, la notizia: i miei amici hanno ripreso la loro convivenza. Per le ragioni appena dette me ne sono rallegrato – dopotutto ho il cuore tenero – e, al tempo stesso, un po’ immalinconito. Quasi che quella ritrovata intesa significasse il superamento pigro e consuetudinario della crisi precedente, l’attenuarsi delle contraddizioni senza una loro positiva elaborazione, l’assuefazione ordinaria a un conflitto del quale si tende a ridimensionare la portata tragica. Di conseguenza, plaudo alla Nuova Armonia (sarà un messaggio per la Nazione?), ma non vorrei che i miei amici rappresentassero una figura ad alta intensità simbolica di questa abitudine alla guerra, che mi sembra un segnale distintivo del tempo presente.
L’assuefazione è un istinto terribilmente “umano troppo umano”: corrisponde a una irriducibile pulsione di sopravvivenza e a quella strategia di adattamento che costituisce la principale risorsa delle creature nel loro tempestoso rapporto con il mondo, la natura, gli altri viventi. Ma porta con sé la consuetudine al male, all’ingiustizia, alla sofferenza.
Nemmeno la vicenda di Victoria Amelina sembra aver intaccato la nostra sostanziale indifferenza. Amelina, considerata una tra le voci più autorevoli della letteratura ucraina, aveva 37 anni e un figlio. Aveva smesso di scrivere romanzi per dedicarsi al racconto di quanto stava accadendo nella sua terra. È stata colpita da un missile russo in un ristorante a Kramatorsk ed è morta insieme a due gemelle di 14 anni. È una storia grandiosa e tragica, di quelle che – ci si aspetterebbe – incidono sul sentimento collettivo e sull’immaginario comune, portano gli individui a mobilitarsi e a riunirsi in preghiera, inducono a riprodurre sulle t-shirt dei ragazzi le foto delle vittime, a intitolare loro un parco, a elaborarne il mito.
Nemmeno lo strazio del corpo di Victoria ha determinato un simile soprassalto emotivo. Così come non era accaduto quando, nel marzo del 2022, si scoprì l’eccidio della città di Buča. E, per contro, le migliori menti di un’intera generazione di giornalisti, anche di sinistra (?), si impegnarono per dimostrare che si trattava di una montatura a opera delle stesse vittime: gli ucraini, appunto. Poi, non uno che abbia chiesto scusa per la propria quota-parte di ignominia.
Infine, anche il grottesco putsch di Evgenij Prigozhin non viene interpretato per ciò che effettivamente è stato (il segnale di un regime in crisi verticale), bensì come una manifestazione di potenza della Russia.
Così gli zelanti agit-prop, anche di sinistra (?), di Vladimir Putin scambiano i propri desideri per realtà. Dietro tutto questo si indovina un gigantesco inganno. Insomma, mi sembra che quanti contestano la scelta di stare incondizionatamente dalla parte dell’Ucraina sottovalutano il ruolo delle vittime.
La premessa di cui leggiadramente ci si fregia (sia chiaro: l’aggressore è la Russia) è diventata una clausola di stile o, peggio, frusta retorica.
Nei fatti, ciò che si attua è l’equiparazione tra le vittime ucraine e quelle russe. Certo, anche queste ultime sono vittime ed esigono rispetto e carità. Ma ciò non deve comportare l’azzeramento delle responsabilità prioritarie e presenti in nome di quelle “di tutti” e “di sempre” e la rimozione delle colpe congiunturali e immanenti: per ricondurre ogni cosa a una “complessità” della situazione generale e a una genealogia delle cause che, riandando indietro nella storia, dissolvono le ragioni e i torti dell’oggi.
Ciò che conta in Ucraina è proprio l’attualità della condizione delle vittime: sono i corpi di Amelina e degli abitanti di Buča.
E il discrimine intorno al quale ci è chiesto di schierarci è rappresentato da quella vittima ucraina che, fino al 24 febbraio del 2022, riteneva di essere al riparo dalle bombe.
Ciò che traccia il confine è, come scriveva Johann Baptist Metz, “l’autorità dei sofferenti”. Attenzione: non la sofferenza come categoria astratta e universale, bensì proprio quella dei titolari in carne e ossa di un dolore irreparabile.
Ho scritto alla coppia di amici: felice della vostra ritrovata felicità, ma continuate a litigare ferocemente.
[Di Luigi Manconi, da la Repubblica di domenica 9 luglio 2023; pag. 27]
Immagine di copertina: Un murale di solidarietà con l’Ucraina a Binnish, nella provincia siriana di Idlib, il 24 febbraio 2022. (Anas Alkharboutli, Picture-Alliance/Dpa/Ap/Lapresse); da Internazionale