Africa

La “nostra” Africa, patrimonio dell’umanità

segnalato da Sandro Russo

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L’Africa torna e ritorna, nei nostri pensieri, non solo per i migranti che abbandonano le sue coste per mettersi in mare verso un incerto futuro, non solo per le occasionali star, l’ultima il nigeriano Osimhen che ha propiziato il terzo scudetto del Napoli.
È, quello dell’Africa, un pensiero il più delle volte doloroso, come chiudevo una tripletta di articoli al riguardo, comparsi sul sito tra il 2015 (leggi qui) e il 2016, riferiti alla mia esperienza in Somalia del 1978: Viaggi (4). Mal d’Africa e Mal d’Africa (5):


“Il pensiero della Somalia che ho conosciuto nel ’78 e dell’Africa in generale è, nei miei ricordi, doloroso.
Vi avranno sicuramente contribuito la cattiva coscienza di europeo; colpe accumulate nei secoli che sembra si siano cristallizzate in situazioni non più modificabili; e poi fattori esterni – i rivolgimenti climatici, la tragedia dell’Aids – non aggredibili per la volontà positiva individuale o di piccoli gruppi.

Altre tragedie abbiamo vissuto, in giro per il mondo: in terra d’Asia – nello Sri-Lanka – persone e cose conosciute e amate sono state travolte dalla furia dello Tsunami del 26 dicembre del 2004.
Ma non è stato lo stesso. In quel caso rimboccarsi le maniche è venuto spontaneo; ricostruire è stato naturale.
Con l’Africa è andata diversamente.
Immagino – spero! – sia solo un modo personale di sentire, una risposta caratteriale alle esperienze vissute, ma il mio sentimento prevalente, al pensiero dell’Africa, è la perdita della speranza.
Impossibile da vincere, pesante da sostenere”.

Anche la recente lettura di un mio amico ritrovato, Carlo Secondino, che mi ha fatto avere un suo libro sulla sua recente esperienza di volontariato, di sette anni, in Kenia (leggi qui) mi conferma l’immensità dei problemi e lo scoramento che prende, al pensiero…

È in questo stato d’animo che propongo la lettura di un articolo di Fernando Gentilini, da la Repubblica di mercoledì 3 maggio 2023

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LETTERATURA E AMBIENTE
Siamo come le giraffe
di Fernando Gentilini

Nel profetico “The End of the Game”, uscito nel 1965 e dedicato all’Africa Il fotografo Peter Beard proponeva un’alleanza con i non umani. Per salvarci

Il primo bianco a vedere in lontananza la vetta immacolata del monte Kenya fu Johan Ludwig Krapf, il 3 dicembre 1849. Tra terra e cielo, bianca come le nubi, del tutto estranea rispetto alla foresta fuligginosa da cui svettava. Per i nativi era il Ke’Nyaa Wakamba, lo struzzo gigante bianco e nero, ancora più sacro del Kilimangiaro. Lassù dormiva Ngai, il loro dio, su un ghiacciaio a forma di giaciglio chiamato Ira.

A quel tempo l’Africa orientale era una specie di Eden, dove a ridosso dei due immensi giganti di ghiaccio tutto pareva destinato all’eternità. Un’infinita esplosione di uccelli, di piante, di fiori. E miriadi di belve sontuose — leoni, elefanti, giraffe e rinoceronti — che ancora per pochi decenni sarebbero vissute secondo natura, in armonia con i figli del primo umano disceso dal paradiso, naturalmente un Masai.

Gli indigeni non immaginarono la sciagura incombente. Le conseguenze dell’assalto dei bianchi alla Natura ci avrebbero messo anni a manifestarsi. Solo gli stregoni videro arrivare la fine, e implorarono alle tribù di non separarsi per nessun motivo dagli animali poiché la sopravvivenza di entrambi sarebbe dipesa da quell’unione. Restando uniti — uomini e belve — potevano resistere al nemico: avrebbe assunto la forma di un serpente, e sarebbe arrivato dal mare.

La ferrovia che da Mombasa puntava all’Uganda, vista dall’altopiano, pareva proprio un immenso pitone di ferro. Avanzava nella savana, e divorava tutto quel che trovava sul suo cammino: uomini, alberi, animali… Fu quel treno a cambiare il paesaggio dell’Africa orientale, e con esso il destino del continente. Ormai, tempo qualche anno, le grandi arterie stradali, le città di cemento e le riserve di caccia avrebbero rimpiazzato sentieri, villaggi e foreste primarie.

The End of the Game (La fine del gioco) di Peter Beard, uscito nel 1965, racconta la morte dell’Africa come nessun altro libro. Attraverso foto, schizzi, disegni, collage e diari di un artista molto più avanti dei suoi contemporanei, il quale aveva capito che il continente nero non era una riserva infinita di leoni, giraffe ed elefanti, e che il duello insensato tra uomini e animali sarebbe finito con la disfatta di entrambi.

Un’opera d’arte il libro di Beard «che è insieme memoria, reportage e profezia» scrive Paul Theroux nella prefazione all’edizione Taschen del 2015. Perché l’autore ci mostra un continente dove non c’è più nulla di intatto, lo avevano già compreso Conrad, Hemingway e Blixen. E riesce a farlo schierandosi non solo dalla parte dell’Africa, come i suoi tre autori di riferimento, ma anche dalla parte degli animali. Fu soprattutto la scrittrice danese a incantare Beard, che seppe farsela amica. Dalla fattoria leggendaria di Out of Africa , ai piedi delle colline Ngong, lei aveva testimoniato la fine di un mondo. E quindi era nell’ordine delle cose che Beard scegliesse di stabilirsi proprio in quella stessa tenuta, vicino Nairobi, che negli anni sarebbe diventata il quartier generale delle sue esplorazioni e provocazioni africane.

Quella di Peter Beard è anzitutto un’esortazione a salvarci, stabilendo un rapporto diverso con il Pianeta e iniziando a preoccuparci del non umano. Una preghiera perché possa nascere una nuova alleanza con gli animali, i nostri coinquilini su questa Terra. Per poi magari allargarla ai ghiacciai, agli oceani, ai deserti, alle foreste e alle montagne, ovvero a tutto quel che ancora ci ostiniamo stupidamente a considerare inanimato.

Il pensiero corre naturalmente all’accordo sul clima del 2015, che aveva suscitato così tante speranze e la cui attuazione potrebbe invertire in qualche modo la tendenza. Ma soprattutto all’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, dello stesso anno, con cui la Chiesa di Roma, con un gesto senza precedenti, ha riconosciuto al non umano piena dignità, elevandolo al rango di alleato nella cura della casa comune.

Filosofi come Bruno Latour, antropologi come Eduardo Kohn, scrittori come Amitav Ghosh hanno tutti evocato un ordine mondiale che oltrepassi la geopolitica, in cui umani e non umani possano collaborare per salvare il pianeta. Per noi Sapiens sarebbe l’occasione di un riscatto. Che potrebbe tranquillamente essere alla nostra portata se solo capissimo che sulla Terra non siamo i soli esseri pensanti, né i soli ad avere progetti per il futuro, né i soli a rischio estinzione.

Le reazioni a tragedie come quella del runner ucciso dall’orsa in Trentino dimostrano che al riguardo c’è molta strada da fare, perché non sarà facile reimparare ad avvicinare spiritualmente le altre forme di vita. Ovvio che ci si debba proteggere dagli animali pericolosi, ci mancherebbe altro. Ma bisogna farlo con intelligenza, proteggendo anche loro, e soprattutto senza mai più dimenticare che ogni volta che scompare dal pianeta una specie vivente, ci avviciniamo un po’ più anche noi al baratro dell’estinzione.

Peter Beard profetizzò “la fine del gioco” mezzo secolo fa, quando certi problemi li vedevano in pochi. E il tempo, purtroppo, gli ha dato ragione. Dalla prima edizione del libro, i leoni sono spariti in diversi paesi africani. E anche i rinoceronti se la passano male, quello bianco è di fatto estinto, per non parlare di bufali, zebre, giraffe… Contro ogni previsione, sono gli elefanti, oggi, a destare un po’ meno preoccupazione: perché se in certe regioni africane la caccia è fuori controllo, in altre il loro numero è persino in aumento.

Alla loro ecatombe Beard dedica le immagini più brutali, a suggerire un’alleanza tra umani e non umani che parta proprio dagli elefanti, che ci somigliano più di altri animali. Stessa durata di vita, stessa struttura sociale, stesse patologie da stress, stesse morti numerosissime per malattie cardiovascolari, stessa incapacità di vivere in equilibrio con le altre specie e con l’habitat circostante, e quindi in ultima analisi stessa propensione all’autodistruzione…

Se con il termine “classici” intendiamo quei libri che a distanza di tempo non smettono di parlarci, The End of the Game di Peter Beard è uno di questi: un classico su uno dei fallimenti più eclatanti nella storia dell’umanità, ovvero il non aver capito che sterminando le altre specie stavamo sterminando noi stessi. Beard lo ha dedicato a ciò che amava di più al mondo, le grandi fiere africane; ma la sua resta una lezione universale, che in questi giorni ci parla ovviamente con il linguaggio degli orsi e delle specie dei boschi nostrani.

[Di Fernando Gentilini – Da la Repubblica del 3 maggio 2023]

Immagine di copertina. Peter Beard dà da mangiare alle giraffe all’Hog Ranch, Nairobi (foto ©markgreenberg/redux/contrasto)
L’articolo riportato in formato .pdf: La Repubblica. Fernando Gentilini. 3 maggio 2023

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