proposto da Sandro Russo
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Per la Festa dei Lavoratori, il 1° Maggio cercavo una sintesi tra l’inquietudine per i tempi che viviamo, il fastidio che mi deriva da notizie di attualità – tra cui la decisione di convocare un Consiglio dei Ministri proprio oggi per approvare dei decreti che riguardano appunto il mondo del lavoro – e la memoria storica di questa ricorrenza così fastidiosa alla Destra (ora di governo).
Ho trovato perciò mirabile questo articolo di Ezio Mauro, su la Repubblica di oggi, che mi fa piacere condividere con i lettori di Ponzaracconta.
Buon 1° Maggio
L’editoriale
La battaglia per l’egemonia sociale
di Ezio Mauro
È l’ultimo Primo Maggio del vecchio mondo, o è già quello che segna l’inizio del mondo nuovo? Le bandiere e i canti sono gli stessi da cent’anni, quando il lavoro celebrava se stesso sull’aria del Nabucco: “Vieni o maggio/ t’aspettan le genti/ ti salutano i liberi cuori/ dolce Pasqua dei lavoratori/ vieni e splendi alla gloria del sol”: prima ancora della coscienza di classe questo mito materiale nasceva da una condizione comune, dalla condivisione della fatica e addirittura dalla rivendicazione dei primi diritti, riassunti dalla formula 8x8x8: otto ore di lavoro, otto di riposo e otto di tempo libero, una rivoluzione che avrebbe portato allo sviluppo delle Società di Mutuo Soccorso e delle Case del Popolo accanto alle Camere del lavoro, con due mani intrecciate nei simboli. Non per caso Mussolini appena arrivato al potere recide quel nodo che tiene insieme solidarietà, organizzazione, tutela, passione in un’embrionale proiezione inevitabilmente politica, e dopo aver devastato e incendiato in soli due mesi del 1921 59 Case del Popolo, 119 Camere del lavoro, 197 cooperative, 83 Leghe contadine, il 19 aprile del 1923 abolisce per decreto la festa del Primo Maggio.
È tutto questo deposito di storia che si celebra oggi, proprio mentre il nucleo vitale di quella memoria custodita si indebolisce dopo un secolo, diventando più freddo. È il lavoro, grande attore sociale del Novecento, che sembra aver smarrito la nozione di sé stesso, lasciandosi deformare dall’urto congiunto della pandemia, della trasformazione tecnologica, della mondializzazione e della sua crisi, col risultato di smarrire quella funzione generale, deprimendo di conseguenza il suo ruolo politico. Globalizzato, il lavoro aveva già perso l’unità di tempo e di luogo, si separava nei percorsi diversi dei nuovi concetti che lo definivano a pezzi nel linguaggio della modernità (professionalità, conoscenze, esperienze, competenze) rinunciando alla soggettività unitaria che si era conquistato. Come se il suo ruolo non fosse più riordinabile in una concezione generale, immediatamente riconoscibile, dato che nella dispersione identitaria tipica della nuova epoca i singoli lavori — con il loro specifico sapere — sostituiscono oggi il lavoro nel suo significato universale, e ogni ricomposizione d’insieme è ormai impossibile.
Ritirandosi dalla società, e rifugiandosi nella tecnica di mestiere, il lavoro ha rischiato in questi anni di crisi di perdere anche la consapevolezza dei diritti che ha sempre generato naturalmente nel suo procedere, svolgendo un compito politico nel senso più alto del termine. E diventando, da strumento di sottomissione volontaria alla necessità, un mezzo per la realizzazione di se stessi, per la soddisfazione delle vocazioni individuali e per la manifestazione dei propri talenti, con l’eterno mandato di costruire il progresso e creare il futuro, contribuendo alla crescita e allo sviluppo.
Ma soprattutto, il lavoro è stato un veicolo privilegiato e spontaneo di cittadinanza, cioè di integrazione e di coscienza, potremmo dire di costituzionalizzazione nel sistema della parte diseredata della società che rischiava la marginalità e la deriva, e proprio attraverso il lavoro ha intrapreso un cammino di emancipazione, magari fino alla ribellione: ma dentro il meccanismo politico repubblicano, che si chiama appunto democrazia del lavoro.
In realtà, noi oggi attribuiamo al lavoro una crisi che è della democrazia. L’assedio universale della pandemia ci ha fatto intravvedere una riconfigurazione del sistema sotto l’urto dell’emergenza, con i cittadini che per forza di cose si adeguano a una politica disciplinare, cedendo spontaneamente quote di libertà in cambio di politiche di sicurezza. Chi ha salvato il meccanismo sociale in quel passaggio delicato è stato proprio il lavoro, anzi il lavoro degli altri, medici e infermieri in primo luogo, ma anche operai, manutentori, cassiere dei supermercati, camionisti, insegnanti che hanno consentito al resto della popolazione di rimanere a casa proteggendosi dal virus, mentre loro lo sfidavano nell’interesse di tutti, mantenendo acceso il motore sociale. A conferma che il lavoro, nonostante tutte le metamorfosi, contiene ancora oggi in sé l’elemento spontaneo della solidarietà. Ma manca un mercato dove spendere questo elemento. L’accettazione delle diseguaglianze, anche quando precipitano in esclusioni, ha consegnato al populismo un pezzo di popolo alimentato dalla rabbia che cresce nella solitudine repubblicana: e intanto tra i diseguali si spezza il vincolo sociale di interdipendenza, si separano le idee di Paese, si divarica l’orizzonte di destino. E naturalmente si sviluppa un inedito egoismo del welfare che ne rovescia il significato e la missione, erodendolo, una nuova gelosia delle tutele, un’esclusiva delle garanzie che le trasforma in privilegi, una privatizzazione nel consumo dei diritti.
Il lavoro fatica ad adattarsi alla ristrettezza di questi nuovi confini che gli rubano l’anima sociale, riducendolo a pura produzione. L’interpretazione stessa del lavoro è in crisi. La sinistra ha la tentazione di reagire scavalcando il problema per inseguire i diritti post-materialistici, certamente importanti ma disincarnati dalla quotidianità sociale. La destra cerca nel lavoro la promessa della crescita e l’energia nascente degli interessi privati autonomi e concorrenti, incoraggiati e indirizzati in una logica neo-corporativa che separa il capitale dal lavoro, il lavoro dalla salute, la salute dalle regole, alla ricerca di un nuovo blocco sociale di riferimento insofferente alle norme e ai controlli, già benedetto da Giorgia Meloni con lo slogan pronunciato davanti agli industriali del Veneto: «Non va disturbato chi produce».
Ora c’è un passo in più. Meloni convoca proprio oggi, Primo Maggio, il Consiglio dei ministri per varare provvedimenti sul lavoro, polemizzando col segretario Cgil sulla scelta del giorno, rivendicando la decisione di «onorare i lavoratori con l’impegno del governo nella data della loro festa». Nei fatti, è un tentativo di demitizzare il Primo Maggio, desacralizzandolo, e contrapponendo al sindacato che manifesta il governo che lavora, rompendo il calendario liturgico secolare della sinistra. Attraverso questo varco s’intravvede la prossima scelta della premier: dopo la battaglia per l’egemonia culturale, creando un pensiero di destra, la sfida finale ai sindacati per l’egemonia sociale, e la conquista del mondo del lavoro.
[Di Ezio Mauro – Da la Repubblica del 1° Maggio 2023, in prima pagina, continua a pag. 21]
vincenzo
1 Maggio 2023 at 15:24
Non accetto e non chiedo elemosina… mi chiamo Daniel Blake
Un film che mi ha commosso giusto nella festa del lavoro che non c’è e dell’ingiustizia che invece diventa sempre più evidente
https://youtu.be/G9EoxIUwAlk
Lo chiamano il funerale del povero, perché è l’orario meno caro, le nove del mattino…
e racconterà chi era quell’uomo…
… ci ha dato cose che il denaro non può comprare…
E legge la lettera che Daniel aveva preparato per la Commissione per il ricorso:
“Non sono un cliente, né un consumatore, né un utente, non sono un lavativo, non sono un parassita….
Così spesso viene giudicato chi, per forza maggiore, si trova in una situazione di disagio senza uscita…
… non accetto e non chiedo elemosina… mi chiamo Daniel Blake, sono un uomo, non un cane…
La spirale nella quale si rischia di finire porta a giudizi affrettati e sommari e a una situazione nella quale prima delle vittime stesse sono gli altri a dimenticarsi che…
… sono un cittadino, niente di più e niente di meno.”
Sandro Russo
1 Maggio 2023 at 20:01
Bravo Vincenzo,
un commento molto pertinente, e un campo sterminato da considerare. Per fortuna questa volta l’hai aperto tu.
Ken Loach è un grande e il mondo inglese del lavoro particolarmente spietato.
Non solo Io, Daniel Blake (2016); anche l’altro, Sorry, We Missed You (2019), non era meno duro. E molti altri film, sempre su quel mondo e quella classe sociale.
In Francia abbiamo Robert Guédiguian, Stéphane Brizé e anche i fratelli Dardenne che si ispirano al mondo del lavoro, spesso con risultati eccezionali.
E in Italia? Morti Volonté (che non era un regista, ma mi viene da citare lo stesso), Rosi, Petri… nel panorama attuale del cinema italiano non mi viene in mente niente di paragonabile… A meno che non abbia preoccupanti buchi di memoria.
Virzì forse, ma il suo è soprattutto cinema di costume; e un film recente, semiserio, surreale e sarcastico, visto con molto piacere, di Pif, Pierfrancesco Diliberto: E noi come stronzi rimanemmo a guardare (2021), di cui ho anche scritto sul sito [segno di grande interesse: leggi qui].