Libri

Per chi la montagna, per chi il mare… (è vita e sogno)

segnalato da Sandro Russo

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Seguiamo sempre con interesse quanto Paolo Rumiz scrive: i suoi temi ricorrenti sono il viaggio e la montagna che conosce bene. Qui recensisce il libro di un suo amico – Alberto Rollo (Milano 1951, scrittore, saggista e critico letterario – anche lui appassionato della montagna. Su la Repubblica di martedì 14 febbraio.
La montagna e il mare. Passioni parallele. Forse neanche amore, ma qualcosa che fa parte di noi, di cui non si può vivere senza. Per questo lo propongo ai lettori di Ponzaracconta.
S. R.

IL RACCONTO
La montagna è vita e sogno
di Paolo Rumiz

  • Paolo Rumiz parte dal saggio-memoir di Alberto Rollo per raccontare il fascino e l’inquietudine delle spedizioni in alta quota. Momenti in cui ritrovare la pace e lo stupore di quando si è “restituiti all’infanzia del mondo”
  • Sono luoghi ricchi di promesse Come le Alpi Apuane, simili a molari spezzati. O come la finestra tra le rocce della Val d’Ongère che si spalanca sugli aghi del Bianco
  • Sembra qualcosa di irriducibile con cui fare i conti, una presenza che traccia un confine alla visuale e ti aspetta sempre, ti studia, ti riconosce

Vorrei portarti, Alberto, su altri monti. Quelli dell’Est, dove l’Alpe si estenua, su saliscendi piallati dal tempo. Monti antichi, ma nuovi per te: tali da non risvegliare ricordi e il confronto, sempre perdente, con il sogno dell’infanzia. Via assieme verso i Carpazi, i Rodopi o i Balcani, con zaini più leggeri, passo più regolare e adatto all’età che declina, per cercare il punto esatto dove sorge il sole e ritrovare, da uomini fatti, la pace e lo stupore cui attingere quando, come scrivi, si è «restituiti all’infanzia del mondo».

Vien quasi da consolarlo, l’insonne Alberto Rollo, durante la lettura del suo ultimo libro, Il grande cielo (Ponte alle Grazie), un distillato autobiografico di malinconia e amore per una montagna che, attraverso piccole storie d’incontro con uomini, donne, nuvole, rocce e animali, segna le tappe di una vita intensamente vissuta fin dal tempo delle prime gite in moto con il padre, o da prima ancora, fin dalla stagione delle fantasticherie su epiche salite in Resegone, sulle Orobiche o sul Rosa.

Ho arrampicato per anni, sulle mie Giulie e in Dolomiti. Forse per questo non leggo quasi più letteratura che abbia a che fare con la montagna.
Non è solo che, invecchiando, vivo una stagione più “orizzontale”. È che fatico a trovare qualcosa che si avvicini all’innocenza della scoperta o sappia battere gli unici orizzonti inesplorati che ci restano: quelli della lingua.
Poi capita di sfogliare questo libro, scoprire che le Grigne sanno lanciare al cielo «acuti tenorili», o che gli ometti di pietra, facendosi largo nella nebbia, sanno cantare una «melodia minimale», e allora ecco il tuffo al cuore. Quello per l’ascensione, talvolta spericolata, che l’Autore compie in se stesso grazie agli appigli delle parole.

Poche citazioni, come ci si aspetterebbe da un divoratore di libri che di mestiere scopre talenti letterari. Ma le metafore dilagano, riempiono di vento le suole in una narrazione dove i libri diventano anch’essi ometti di pietra; perché libri e ometti — come in Dino Buzzati, milanese adottivo innamorato delle Dolomiti — discendono «dalla stessa fonte di malinconia». Storie musicali, dove «il clamore della roccia» è capace di «colmare la notte di scintille sonore», dove si sente «il grido del giorno pieno e il coro a bocca chiusa dei crepuscoli», dove il temporale imminente emana un «grugnare profondo che rammenta l’imminenza di un’espettorazione ». E dove un ghiacciaio, collassando, emana tuoni basso-baritonali, come il tremendo «Ella giammai m’amò» di Giuseppe Verdi, che inchioda gli spettatori al silenzio.

Visioni. Le Apuane, simili a molari spezzati. La finestra tra le rocce della Val d’Ongère che si spalanca sugli aghi del Bianco mentre tira fortissimo il vento che si infila nei pertugi. E, oltre, più in alto dello stesso ago nero di Peuterey, «il grande cielo dove non arrivare mai». E tu sali, pagina dopo pagina, su una croda battuta con fatica di scarponi, e soprattutto immaginata. Non silenziosa, ma umanamente taciturna. Qualcosa di «indocile e irriducibile» con cui fare i conti, una presenza che traccia un confine alla visuale e ti aspetta sempre, ti studia, ti riconosce. Come la sterminata parete Nordovest della Civetta, che, prima della salita, scriveva Emilio Comici, incombe su te con occhi enormi di uccello notturno.

È un andare, quello di Rollo, con uno zaino carico di storie, in un «eruttare di emozioni» che continua a lasciare sedimenti, ma alla fine ti lascia povero. «Vorrei — scrive — avere una percezione di dovizia, di ricchezza che si possa passare di mano in mano, come ci si passa il pane. E invece no». In montagna trovi anche la «tentazione del vuoto», la paura di «perdere non la strada ma l’orientamento interiore», mentre la vita continua «senza lasciarti spazio per occupare i territori in cui si possono redimere le assenze, gli imbrogli del cuore, le falle della stessa intelligenza», con l’amico Lele — e menomale che esiste —, compagno di salite che «ha la pazienza di ascoltare le ultime derive del mio pessimismo».

Ma c’è l’immaginazione che salva. Come in Leopardi, «il bene non è nella montagna ma nel sogno e nella promessa che la precedono». Vedi il Monte Elbrus, mai salito, ma appassionatamente amato attraverso un quadro di Arkhip Kuindži — forse perduto nel museo di Mariupol colpito dai bombardamenti di Putin — che lo ritrae immerso in un bagno di luce lunare, «un cono di bianco denso, pastoso», sullo sfondo di un paesaggio essenziale in cui «tutto ritorna e spreme immaginazione » e dove l’Elbrus è la Montagna per eccellenza, immersa in «una solitudine arresa e pacificata».

La cima può essere meta di visioni, o addirittura «sogno di sogni». Come il Limidario, «uncinato al cielo» sopra il Lago Maggiore, che i genitori di Alberto adolescente proibiscono di salire, mentre gran parte della classe ci va, marinando la scuola. L’Autore rimane quasi solo nell’aula di terza liceo a contare i banchi vuoti e solo anni dopo può raggiungere liberamente quella cima. Ma già prima di coronare il sogno egli sa che la salita non sarà mai stata come l’ha immaginata la notte che da quell’avventura lo escludeva. «Da adolescente ero toccato solo dall’assenza — scrive — e maturava in me la consapevolezza che l’immaginazione va coltivata e alimentata, così come si nutre lo spirito perché, con l’ombra, impasti i colori dell’alba».

Ed ecco la maturità, magico punto di equilibrio fra sogno e sudore, forza e fantasia, ben raccontata nella risalita delle gole di Samaria sui monti di Creta, millequattrocento metri in un’ora e mezza, in cui l’Autore, salendo quasi di corsa, si porta appresso un Apollo splendente e senza lira, «testimone di dorati ronzii di api e di preghiere umane al lume della Luna». È il mito che diventa droga, con l’immaginazione che ti soccorre facendo sentire di meno la fatica. Ma poi, con l’età, il tempo sembra diventare «pura perdita, intermezzo senza musica, emorragia», e proprio allora l’infanzia riappare con odore di fieno e sapore di latte appena munto, o lo spettacolo vissuto a bordo strada dei ciclisti sui tornanti dello Stelvio, in uno sposalizio incantato fra ingegneria stradale e — Coppi! — dimensione aerea della fatica. In quei momenti il vecchio seduto al bar e ragazzo d’un tempo si ritrovano faccia a faccia, ma non sono ancora pronti per intendersi. «Ci fosse — scrive Alberto — un abbraccio che li consumasse. Ma non c’è». In comune hanno solo il cielo sulla testa.

Metropolitano «senza remissione», creatura capace di sentirsi sicura solo «nei viluppi della città» fino al punto di voler farsi seppellire nell’asfalto di Milano, Rollo vive la Polis e il Monte come vertigini parallele. Parlando di Xavier von Moos, riflette che «solo un poeta che ha scavato la propria esperienza nel caos di una città come Parigi può aggirare le romanticherie della montagna e smontarne i vezzi, le estasi artificiali». Perché la montagna non è «una scala di Giacobbe». Non salva, non redime, come vedi nelle statue della “Passione” sul Sacro Monte di Varallo, dove Cristo, in balia di un’orgia di violenza, conferma che la montagna non è buona, e non è nemmeno una scuola per buoni.

[Di Paolo Rumiz. Da la Repubblica del 14 febbraio 2023]

Nota della Redazione
Di Paolo Rumiz (Trieste, 1947) abbiamo pubblicato molti reportage di viaggio e altri scritti, usciti su la Repubblica ma anche ripresi da altre fonti. Digitare – Paolo Rumiz – nel riquadro ‘Cerca nel sito’, in frontespizio, colonna di sinistra

Immagine di copertina: Monte Elbrus. dipinto di Arkhip Kuindži (1842-1910). Già al Museo di Mariupol (Ucraina)

L’articolo in formato .pdf: Articolo di Rumiz. La Repubblica 14 febbr. 2023.jpg

 

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