Racconti

Le distanze (1)

di Pasquale Scarpati

Ma come devo fare? Sono partito da un breve commento al senso di solitudine dei giovani, poi però quelle mie esperienze del passato  mi hanno preso la mano e ora un pezzo, ora un altro, ne è venuto fuori lo scritto che invio. Molte cose le ho tolte, purtroppo altre se ne sono aggiunte. È come se srotolassi una vecchia bobina in cui le immagini si susseguono l’una accanto all’altra. Forse chi è avvezzo agli scenari usuali dell’Isola non ci fa caso o forse pensa che non sia così, ma per me, quando cammino nei ricordi, tutto sembra attuale. Sono a volte le stesse scene, ma viste da altra angolazione.  Giacché ho scritto, invio; se la redazione lo ritiene opportuno pubblichi, altrimenti non importa.
Come sempre un caro saluto agli amici e lettori di Ponzaracconta da
Pasquale

Le distanze
di Pasquale Scarpati

Fino a che non ebbi piena conoscenza della Terraferma, non avendo alcun mezzo visivo (la TV era neonata e la possedevano in pochi) il mio mondo era circoscritto ai circa 10 kmq. dell’Isola. Della Terraferma non ne ebbi piena conoscenza neppure quando fui “confinato” in collegio. Perché da lì si usciva di rado: un giorno la settimana, per due ore e sempre sotto “stretta sorveglianza”. Neppure conoscevo le bellezze del periplo dell’Isola, perché, per i natanti del tempo (per la massima parte a remi), fare il “giro dell’Isola” era un evento eccezionale se non raro, almeno per me. Quando mio cugino Giuseppe ‘recuperò’ un piccolo, ronzante fuoribordo, che faceva il suo dovere dopo esser stato “fustigato” con la corda e non senza qualche parolaccia (si metteva in moto avvolgendo una corda sulla testata), qualche volta, ma solo di rado, effettuammo quella “sortita”; rigorosamente d’estate ( negli altri periodi era un po’ pericoloso per via della velocità del mezzo).

Era un evento. Sembrava di dover compiere la traversata… atlantica ma in barca. Imbarcavamo di tutto e di più: in primis l’acqua in abbondanza; non poteva mancare il pane: ’nu palatone, ’na pagnotta oppure ’na palatella che sostituiva egregiamente i panini (non le tartarughe ma quelli col piripicchio come le brioche), illustri sconosciuti poiché erano costosi e introvabili (riservati, per lo più, a i festin’). Il salame e/o mortadella ed il provolone piccante erano avvolti, a parte, nella carta perché oltre al risparmio era anche piacevole inserirli tra le fette tagliate grossolanamente oppure in mezzo alla palatella o ’u culurcio ( le parti terminali del palatone o della palatella). Qualche scatoletta di tonno con il relativo apriscatole (non esisteva l’apertura a strappo), quello con il manico di legno oppure (quando apparvero sul mercato) quello piccolo d’acciaio. Qualche alice messa sott’olio. A seguire i pomodori e qualche cetriolo. Era buono anche un avanzo o un pezzo di parmigiana di melanzana o di zucchine. Non poteva mancare ’a pizza d’a Russiella ma soltanto quella rossa. Né olio né sale. Il primo perché – ci dicevano – qualora si fosse rovesciato avrebbe inzaccherato tutto.  Del secondo se ne poteva fare a meno perché ciò che doveva essere condito con il sale veniva immerso nell’acqua limpidissima del mare; come dire, si univa l’utile al dilettevole: si lavava l’ortaggio e contemporaneamente si condiva con il sale. A seguire qualche tozzo di panettone (ciambellone dolce) anche se un poco “stagionato”. Vari asciugamani che sarebbero serviti non solo per asciugarsi ma anche per proteggersi da un eventuale… colpo d’aria perché, dicevano gli adulti: Pe’ mare nun se sa mai..! e l’immancabile  cappello per evitare “colpi di sole” dal momento che la barca , come tutte o quasi, era priva di tendalino. Come stoviglie un coltello o coltellino (anche per staccare dagli scogli “due tenaci patelle”) e bicchieri di vetro in numero pari ai… diportisti.
Di norma, anche se si partiva da Giancos, si drizzava la prua verso i faraglioni della Madonna, mai, per mia esperienza, verso Frontone. Questo per evitare che il fresco Maestrale ci accompagnasse per quasi tutto il tempo. Data, infatti, la lentezza della barca, una volta doppiata la punta del Faraglione della Guardia si temeva che, rinforzando il Maestrale, non si riuscisse a completare il giro dell’Isola. Ancora oggi, in cuor mio, nell’accingermi a rifare il periplo avverto la medesima sensazione anche se la velocità e/o la stazza dei natanti permette di drizzare la prua dove e come si vuole; ma io, anacronisticamente o, se volete, nostalgicamente, inizio sempre dalle Grotte di Pilato e via da quella parte.

La costa scorreva molto lentamente ma linearmente. Ma quello era già un progresso rispetto a quando si avanzava con i remi: con fatica e a scatti. Con essi era impensabile, per me, effettuare il giro dell’Isola! Il motorino compiva il suo dovere, arrotolando l’acqua con la piccola elica. Ogni anfratto appariva lentamente e lentamente spariva, ogni buchetto faceva sentire il gorgoglio marino e sul fondale o lungo le pareti, i ricci sembravano a portata di mano; le patelle attaccate agli scogli della Scarrupata come i callosi “spaghetti di mare” ed i vari colori delle rocce lungamente rimanevano lì; così come sono rimasti impressi nella mente. L’acqua non faceva una piega, accarezzando dolcemente gli scogli e le “chiane”.

Rasentavamo la Parata e la Scarrupata, notavi gli scogli: quelli lisci e quelli grinzosi e già ti proiettavi a dove…poggiare i piedi, una volta fermato l’andare. Era piacevole immergere una mano nell’acqua e sentire, nel lento andare, non solo la frescura ma anche la sua debole resistenza. A volte, per attenuarla, allargavo le dita ed era piacevole sentire l’acqua che scivolava via tra esse. Tuffata l’ancora o una pietra che fungeva da ancora, la barca restava lì, dondolando più per i nostri “capricci” che per le onde provocate da altri natanti. Summezzate, risalite (ovviamente senza scaletta) e di nuovo panzate e risate rimbombavano nella quiete dei faraglioni, delle spiagge e degli scogli. Qualche roia (gabbiano) non abituata a tanto… casino, spaventata, volava via.
Dopo il faraglione della Guardia sembrava di navigare già in mare aperto.

A Chialiùn’ che ce iamm’ a fa’, tanto ce putimm’ i’ a piede, iamm’ ind’i rott’i Cap Ianch’.
Altra sosta. Un certo languorino… i denti cominciavano ad afferrare voluttuosamente ciò che avevamo portato. Ci inzaccheravamo le mani di grasso della mortadella o del salame che, per quanto protetti, erano divenuti, sotto il Sole cocente, untuosi, a seguire esse si ungevano di olio del tonno e di pomodoro ‘ferocemente’ schiacciati ’ncopp’a ’nu cantone ’i pane. Anche la fetta di melenzane o di zucchine alla parmigiana veniva sospinta tra due fette di pane o ’nd’u culurcio e poi schiacciata. Una delizia o goduria avrebbe detto qualcuno! Niente posate, niente plastica. Per pulirsi le mani: prima succhiarsi le dita, poi l’acqua salata ed infine una strofinata sui fianchi o sul parapetto della barca o, se c’era, utilizzare un qualsiasi strofinaccio che si trovava per caso sulla barca e che probabilmente serviva per asciugare l’ultima goccia d’acqua sotto i paglioli.
Le patelle odoravano e sapevano di mare, per questo le gradivo appena staccate dallo scoglio. Dopo un po’, per me, già avevano perso il loro gusto.
Le piccole cavità marine erano quelle dove si avvertiva di più l’odore del mare accompagnato al gusto dell’acqua che faceva mulinello nella bocca per poi essere espulsa anche con forza verso chi stava di fronte. Quello si schermiva e mi rendeva la pariglia.


E così via, adagio adagio lungo il periplo. I piscine naturali, ’a cala d’u forte Papa. A seguire il pontile e la nave attraccata a quello: una stonatura in quell’armonia. Istintivamente, fin d’allora mi sembrava un “accidenti” fuori luogo, ma non lo capivo a fondo: non avevo l’età per capire né mi era stata inculcata quella sensibilità poiché in quel momento sembrava che l’uomo fosse realmente padrone e signore (dominus et deus) e che pertanto gli fosse permesso qualsiasi cosa, spinto com’era anche dalla necessità e dal bisogno.


È raro riuscire ad analizzare il momento in cui si vive, il presente o l’attimo fuggente. Più facile vagliarlo, guardando al passato ma, facendo questo, si perde la sensazione di quel momento e per quanto si cerca di immedesimarsi, difficilmente ci si riesce o perché per alcuni sembrano cose inventate mai avvenute, oppure, anche per chi cerca di riviverle, esse risultano evanescenti, simili a un sogno.
Invece, a mio parere, ogni qualvolta ci si tuffa nella storia, intesa anche e soprattutto quella delle piccole cose, del quotidiano, bisogna renderla quanto più veritiera possibile anche a costo di scandalizzare o sembrare duro. Altrimenti si rischia di affidare alle future generazioni conoscenze distorte, imprecise e labili.  Ma verso le 19 (non esisteva l’ora legale) l’ombra che si allungava sul mare scendendo dal monte Core ci sollecitava a riassaporare il brecciolino di Giancos  per cui saltavamo la spiaggia di Frontone. Ma non era una grossa perdita perché lì ci potevo arrivare a remi (come mi succedeva non di rado).
Sensazioni a tutto tondo nel significato letterale della parola.

[Le distanze (1). Continua]

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