Ambiente e Natura

Diario di bordo

di Pasquale Scarpati

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Caro compare e cara Redazione
Invio un pezzo buttato giù in fretta in fretta. Veramente volevo fare un commento breve breve al viaggio “agitato” del Tetide, ma poi … l’onda dei ricordi si è fatta sentire per cui non so se va bene come commento o come pezzo a se stante. Già molte volte ne ho parlato ma tanto tempo fa. Vedete voi.
Un caro abbraccio da… Pasquale

 

Sono andato in collegio fin dal 1957 e quindi di traversate ne ho fatte tante che ho ampiamente descritte. A causa del periodo inclemente, spesso quelle all’inizio e alla fine delle vacanze natalizie erano le più “tormentate”.
Se la nave partiva: era obbligatorio partire! – a volte si faceva la levataccia ma la nave rimaneva lì: ma a me non è mai capitato! – dal momento che la nave partiva per Formia (la tratta più breve: 3 ore piene piene) soltanto il mercoledì ed il sabato. Gli altri giorni o la nave non partiva oppure impiegava molto più tempo (5 ore il “giro” di Ventotene e Santo Stefano, ben 7 ore (sic!) la “ mini crociera” da e per Napoli). Ma in quei giorni si partiva un po’ più tardi (alle 5 del mattino del giovedì per il giro di Ventotene e alle 7 del mattino della domenica per la “mini crociera”).
Ne ho scritto tante volte, soprattutto quando partii da Napoli e non giunsi a Ponza ma ci dovemmo fermare e pernottare a Ischia. Era forse il 1960/61.

Quindi… si doveva partire! Con ogni tempo e con quelle navi che, per la loro dimensione riuscivano ad attraccarsi al “lanternino”; ma a me sembravano… transatlantici!
Il brutto era quando si partiva per Formia alle 4 e mezza del mattino (al buio), perché non si riusciva a vedere che “mare c’era”.
Io che abitavo dove abitavo, tendevo l’orecchio per avvertire l’onda ’ncopp’u summariello.
Andando al porto, al buio, si sentivano già i vari commenti: “C’è il libeccio… lo scirocco (ahimè!), il ponente”.
Se sul Corso il vento fischiava nelle orecchie e “frustava il viso” nonostante la grossa sciarpa di grezza lana: il gelido levante. “Va bè’! Si piglia di prua!”.
Valigie pesantissime, colme di libri, facevano “zavorra” e mani livide.
Poi si partiva: fumo di sigarette e puzza di nafta. Rollìo, beccheggio. L’onda che si apriva e, sciabordando, spumosa, si allontanava dalla nave. Rieccola. Ma la nave, piegandosi, saltando, tremando tutta, la respingeva come esorcista che scaccia il demonio. “Vade retro, Satana!”.
Se il Falerno: entrava l’acqua sotto le panche di legno che stavano al fuori della sala-motori. Valige che stavano sotto di quelle, rapidamente prendevano il nostro posto e noi ci rifuggivamo sotto coperta, annebbiata da altro fumo di sigarette; lupi di mare tranquillamente giocavano la “maniglia”: – Ma che lo chiami mare, questo? – dicevano. Stavo poco con loro, preferivo l’aria fresca anche perché dovevo vomitare (là presso la cucina e la scaletta che veniva calata quando la nave era costretta a fermarsi in rada perché non c’era il porto come a S. Stefano); il tutto riparato da un sudicio, grezzo e pesante telo scuro.
La sofferenza durò fino a che sulla linea ci fu ‘il Ponza’. Poi con il Falerno il mio stomaco si fece più “duro”. Forse per il rumore dei motori molto più attenuato. Mettiti “sotto vento!”. Mi urlava mamma (lei non soffriva il mal di mare, beata lei!). Ma lì c’era meno vento! Ed io avevo bisogno di quello! I crampi era spasmodici, nonostante nello stomaco non ci fosse più niente.
Ognuno aveva la sua ricetta. Zio Peppe: “Prima di partire devi mangiare qualcosa ma asciutta! Niente acqua, né latte: pane secco e pastette senza zucchero!”
Un altro:” Macché! La soluzione sono le… alici salate (ma non sott’olio) con pane raffermo”.
Giovanna (non mia cugina) avvicinandosi mi disse. “Canta che ti passa!”. “
È ’na parola! –  Chi ce la faceva a cantare anzi a parlare! Non c’era rimedio!  Qualcuno per consolazione o perché ci credeva, diceva: “ Questo mare ci accompagna fino a Zannone!” Oppure “Questo è il mare che troviamo”
“Macché!”. Lo scirocco ci accompagnava, purtroppo, fin dentro il Golfo: era insistente, appiccicoso come persona petulante.

Il ponente ci spingeva comme ’na cònnola (culla). Il levante prima ci faceva “ballare” poi si attenuava sotto costa perché nasce da lì.
Buio assoluto. Soltanto le luci della nave si riflettevano in poco spazio per poi rapidamente sparire. Mi dava la sensazione di andare incontro all’Ignoto. Non vedevo l’ora che albeggiasse…
L’alba, livida, sorgeva là verso Gaeta e noi ne stavamo ancora fuori. Guscio di noce in mezzo ai marosi che ci venivano incontro. Mi sentivo più tranquillo anche perché sembrava che la nave ci avesse “fatto il… callo”.
Finalmente il molo Vespucci. Via… a piedi o in carrozzella a prendere il treno o il pullman Zeppieri. Anche al ritorno la stessa cosa. La differenza era che si partiva da Formia sul far della sera o quasi notte, in giornata grigie (16,30) e si giungeva di sera (19.30 circa). Ma la traversata, anche se con mare grosso, mi sembrava più …piacevole. Chissà… perché!
Un bel brodo, caldo e leggero e via sotto le pesanti coperte a pensare che almeno il giorno dopo non mi sarei alzato alle 6 e un quarto del mattino!
Comunque i commenti erano sempre gli stessi: “Era meglio l’Equa, o il Ponza rispetto al Falerno perché “ pescavano” di più!” (avevano la chiglia più alta). Insomma chiglia alta o meno, “il tormento” (soprattutto quando lasciavo la Baia) si avvertiva lo stesso, anche perché era costretto (in tutti i sensi) a… partire, il povero Pasquale!

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1 Comment

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  1. Franco Zecca

    29 Gennaio 2023 at 17:25

    Una frase del breve racconto di Pasquale Scarpati relativo ai viaggi che si facevano “obbligatoriamente” in inverno anche con il mare molto mosso – agitato – molto agitato – di tempesta, mi è stata di ispirazione: “Canta che ti passa” – passa il mal di mare, passa la paura, passa il tempo.
    Ebbene anche a me è capitato di viaggiare diverse volte con il mare molto brutto.
    Le onde erano tanto alte che l’Equa, la nave di quel periodo in servizio Ponza-Formia, quando ne tagliava una con la prua, usciva a poppa con l’elica fuori dal mare!
    L’ho fatto quel viaggio insieme a diversi amici ponzesi, ma uno di essi ha saputo rendermi il tragitto meno angosciante (e vomitevole): Giuseppe Valiante – chi se lo può scordare? – che con le sue battute, il modo di raccontare barzellette e la capacità di imitare personaggi ponzesi dell’epoca, ha reso la traversata più sopportabile… Ogni volta mi/ci distraeva con l’attesa della fine della storiella e ci faceva dimenticare il mal di male.
    Così per me quel motto lo aggiornerei in: “Ridi che ti passa”.

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