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I social e il disagio

di Monica Conversano

Erano anni che non entravo nella mia pagina Facebook. Ho avuto occasione di aprirla di nuovo allo scopo di pubblicare il mio corso di aggiornamento per insegnanti di musica; a cui ovviamente non s’è scritto nessuno.
Ma non è di questo che vorrei scrivere, bensì accennare una riflessione se esista relazione fra l’espressione del disagio sociale e mentale, soprattutto degli adulti, sui social e nella vita reale.
Se si esprimesse nella vita reale lo stesso contenuto che ciascuno immette nella propria pagina Fb, e con le medesime modalità, la vita reale sarebbe veramente meno noiosa.
Ma, dalla gallina infiocchettata spalmata e invitante, tatuata da copione, scivolata nel filtro Photoshop, al narcisista affascinante per esigenze di nutrimento, al politico intortatore, al bellone ammaliatore di pollai, ai pro-qui e contro-là, ai benefattori e ai non-violenti, ai maniaci verbali, gli odiatori e gli accusatori, a quelli più bravi degli altri, alle sante e ai santi… se tutti costoro fossero così autentici nell’esprimere tutto ciò, nello stesso modo appariscente anche nella vita reale, pensate quanto sarebbe più divertente trascorrere la giornata, uscire di casa, dimenticare i dolori. Sarebbe come stare al cinema o al teatro. Uno spettacolo vero. Pirandello.
Invece, nascoste le aberrazioni, il disagio, la follia, nelle proprie abitazioni, si esce per strada con aria normale, addirittura dimessa, come se poco di se stessi si conoscesse.
Senza sguardi sulle persone, senza saluti o buongiorno-caffè di sorta… mentre sui social si spiano a vicenda le rispettive pagine. Si indaga. Si rovista. Si saluta perfino lo sconosciuto!
Ma, se invece di pubblicare la foto della carbonara o dell’ aperitivo sul social, si suonasse il campanello del proprio vicino, spesso sconosciuto, presentandosi colla padella ricolma di pasta fumante o col bicchiere ghiacciato, a dimostrazione delle proprie prodezze? Si sarebbe presi per pazzi! È sicuro!
Sul social invece, piazzi la foto della padella on the table e ti reputano “sano”.
Perché i cosiddetti “pipposermoni” che si pubblicano su fb, nella vita reale non si riesce a snocciolarli, se non per mettere in fuga gli amici o per vedere i calamari delle palpebre di chi ascolta, gonfiarsi inesorabilmente?
Le tipe col naso grosso, su fb si fotografano col filtro, o si coprono le nari col foulard, le piccolette si mostrano alte e i mingherlini si trasformano in muscolosi fighi; poi chi ha gli occhi belli, li fotografa per il bene (immaginario) del pubblico, chi invece ha il naso rifatto, lo passa per vero, e così via. Non è folle?
Si vuol fare intendere una sofferenza d’ amore a qualcuno? Si pubblica su fb un post allusivo o una drammatica foto in lacrime, ma giammai alzare il telefono per esprimersi a voce… al massimo WhatsApp
Questa non è dissociazione? Follia collettiva? Disagio o disastro? O solo sogni che viaggiano nel web?
Mi fermo qui per non affondare sulla patologia grave, cioè di coloro che usano il social per approfittare delle persone ingenue.
Allora interroghiamoci: che relazione c’è fra il virtuale e il reale e verso quali lidi navighiamo? Stiamo perdendo il senso del realtà o creiamo una realtà virtuale plastificata?

Immagine di copertina (proposta dalla redazione): tutorial su come applicare con Photoshop disegni alla pelle per farli sembrare tatuaggi.

1 Comment

1 Comment

  1. Sandro Russo

    15 Gennaio 2023 at 20:45

    Siamo da sempre sensibili a queste problematiche, ma devo ammettere che Monica nel suo scritto le ha osservate da una angolazione originale.
    Già qualche anno fa riportavamo il geniale
    Maurizio Crozza che ha disegnato con Napalm51 il prototipo dell’odiatore seriale (sono chiamati haters, da to hate: odiare). Qui:
    https://www.ponzaracconta.it/2021/07/19/la-malerba-dellinsulto-sui-media/
    E guardacaso, proprio su la Repubblica di oggi, anche il nostro inossidabile Michele Serra si pronuncia sui social:

    L’amaca
    La grande bouffe in formato social
    di Michele Serra

    Si legge del tiktoker americano diventato famoso perché ingurgitava quintali di porcherie, i cibi scaduti erano il suo piatto forte. È morto di infarto a 33 anni, obeso e iperteso, una specie di prolungato suicidio alimentare in pubblico.
    Ognuno ha avuto un compagno di scuola che, per far ridere gli amici, mangiava le mosche o la gomma per cancellare.
    Probabilmente, passata la mattana, è diventato un adulto salutista, ma se la sua platea fosse stata di milioni di persone magari non avrebbe mai smesso di mangiare le mosche. Anzi, per non deludere l’audience ci avrebbe aggiunto anche qualche lombrico.
    Non credo che l’umanità sia peggiorata (nemmeno migliorata, volendo estendere il ragionamento). Diciamo che si sono molto assottigliate le vie di fuga, e manca il tempo della riflessione — che è poi il tempo dell’esitazione. Puoi mettere in rete il capolavoro o la bravata (più facile, statisticamente, la seconda) e sei comunque, quantitativamente parlando, una star. Per contare i clic non devi nemmeno uscire dalla tua stanzetta, non ci sono teatri, set cinematografici, studi di registrazione da raggiungere, non c’è salita da sudare, strada da guadagnare, tutto è già compreso nell’attimo e nei pochi centimetri del tuo schermo. Vedi il tuo nome e il tuo volto replicati centinaia di migliaia di volte, pensi di avercela fatta: sei famoso. Non importa la qualità dell’azione, importa la quantità della reazione. Credi che i social abbiano fatto di te un artista, hanno fatto di te un contabile.
    Senza Tiktok è molto probabile che quel povero ragazzo mangione sarebbe ancora vivo. Lo definirei una vittima, ma non del progresso.

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