Usi e Costumi

Tempo dell’Immacolata (1). La storia pulsa di vita, la nostra

di Francesco De Luca

Siamo entrati nel periodo dell’Immacolata!

La prima a prender posto, dopo la chiamata delle campane, era Rosinella (Maggio). Vestita di nero, come non sapeva fare altrimenti, andava a sedersi nella parte destra della chiesa, adiacente alla statua di santa Lucia, ad un passo dalle suore e dalle altre donne devote. Si sedeva e con aria composta estraeva da tasca la corona del rosario. Non aveva bisogno d’altro.

Gigino, il chierichetto, accendeva le candele dell’altare maggiore, e quelle che gli aveva additato il parroco.
Tanto Gigino era piccolo quanto maestoso era il sacerdote: don Luigi. Così lo indicavano con deferenza i grandi, ma per i piccoli era semplicemente ’u paricchiano. La sua mole si muoveva imponente fra i banchi, la balaustra, i candelieri, sempre con fare discreto, silenzioso, da preghiera. Egli sistemava i fiori nei vasi, toglieva le foglie secche, aggiustava i paramenti sugli altari, e con la coda dell’occhio controllava chi entrasse.

Gigino gli gironzolava intorno per prevenirne i desideri e questa era la qualità che apprezzava don Luigi. Quando tutto era a posto egli andava all’armonium e dialogava con le melodie in cerca di quelle che avrebbero accompagnato la funzione della novena.
Gigino era lì per questo. Aveva lasciato i compagni ai loro giochi. Era il tempo d’ ’u strummelo e ogni bambino possedeva quelle trottole di legno, più grandi e più piccole a seconda della maestrìa. Le vendeva Menecuccio ’a vocca storta, e con esse ci si divertiva e si gareggiava insieme. Perché il primo che giungeva al traguardo con la sua trottola aveva il potere di dare un colpo con la punta di ferro sopra i strummele degli altri.
Talvolta il colpo era tanto forte che li spaccava. Temuto per questo era Tonino Vecchione, un vero castigamatti. Al termine di una partita con lui molti erano quelli che portavano la loro trottola ad aggiustare da Pataccone, il più bonario fra i falegnami.
Per ogni dove c’erano gruppi di ragazzi che con perizia facevano girare la trottola e poi, sempre in moto, la prendevano nel palmo, tenendola a lungo.

Sul più bello della gara l’autunno disponeva il cielo alla pioggia. Si lasciavano allora gli spiazzi e ci si riparava negli stanzoni del ‘camerone’. Non Gigino che trovava più interesse nella chiesa. Era affascinato dal sottile invito alla meditazione che il silenzio della cupola e la sua maestosa penombra inducevano nel suo animo. Le storie del vecchio testamento affrescate ed espresse in figure allusive, suggestive, suggerivano alla sua piccola mente viaggi nel tempo, oltre il presente. Quella folla di simboli e di personaggi lo accoglievano familiarmente e, quando il tutto era avvolto dal suono dell’armonium, la sua
fantasia si crogiolava nel diletto. Per questo era solerte e presente in chiesa e ‘u paricchiano lo introduceva sapientemente nelle spirali dei riti. All’inizio suggerendogli le risposte alle preghiere e poi facendogli assaporare il gusto dell’invocazione corale. La preghiera era il canto. Ecco, bisogna imparare una nuova litania. ‘U paricchiano la abbozza. Come al solito è una melodia orecchiabile, adatta a diversificare le voci.

Giuseppe, Giosué, Luigi, Tonino si pongono alla sinistra: sono i bassi. Franco, Antonio, Gianfranco, Biagino stanno a destra ed eseguono il motivo. U paricchiano con la sua voce alta e potente faceva da contralto, impreziosendo la melodia con contrappunti di terza.
E’ l’ora della funzione. La campana dà l’ultimo richiamo. Il paese ha un fremito: si scrolla la tristezza uggiosa dell’autunno e, come si accendono le luci delle case, da queste fuoriescono le donne per recarsi in chiesa per le devozioni alla Madonna. La sua statua sovrasta sopra un tronetto evidenziato da un sole dai raggi dorati. Il suo corpo di gesso è ricoperto da un bianco velo ricamato. Sul capo spicca una corona d’oro.

La sala parrocchiale è stracolma di ragazze, di giovani, di bambini. Si ride, si scherza, si parla. C’è anche Gennarino, un seminarista sulla cui precoce calvizie si appuntano gli strali, disarmati però dalla sua bonarietà. Gigino avverte una tensione latente in tutti, un’attesa nascosta. Viene don Luigi e invita ad entrare in chiesa. Ognuno prende posto. Gennarino diventa serio e compunto.

La chiesa è piena di gente e si slarga in una dimensione ideale quando don Luigi intona il Tota pulchra: – Tutta bella sei, o Maria, e macchia originale non è in Te. Il coro dei giovani avanza sicuro e dietro tutta la gente segue, impastando il latino col dialetto ma dando fiato finalmente ad una gioia corale.
Gigino un po’ canta, un po tenta di dare un senso a quelle parole altisonanti, lasciandosi attirare dal viso della statua che indica il cielo. Ecco l’ assolo d’u paricchiano che ferisce il cuore depositandovi emozioni forti, irripetibili.

La funzione in chiesa è finita, la grande cupola si spegne e su tutto l’abitato discende la notte. ’U paricchiano si attarda a scherzare coi giovani nel commento dei fatti del giorno. Ognuno di loro è atteso da un destino che lo porterà lontano dall’isola.
Spira forte il vento della vita e bisogna assecondarlo come questo che soffia fuori, per le strade. Domani ancora si ripeterà la magia di un incontro di animi, sotto la grande cupola odorosa d’incenso e risuonante di un canto d’amore.
Anche Gigino infagottato nel cappotto vola a casa ed ogni cappellina dedicata alla Madonna sui muri che sorpassa, con la luce che gli indica la via, lo saluta.

Da Isolaitudine – Edizioni Odisseo – Ponza 1994 – Pagg. 71-2-3-4

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