Defunti

Jean-Luc Godard ci ha lasciati

di Sandro Russo

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La morte di Jean-Luc Godard ci pone un duplice obbligo: ricordare l’importanza e l’opera del regista e riflettere sulla sua decisione di mettere volontariamente fine alla vita, da 91enne ma in buona salute, mentale e fisica.
Una doppia pagina su la Repubblica di ieri, 14 settembre – allegata in formato .pdf in fondo -, affronta entrambi i temi, con articoli della cronaca dell’evento (da Anais Ginori, corrispondente da Parigi); di Alberto Crespi, critico cinematografico; inoltre con un’intervista di Arianna Finos a Chiara Rapaccini, per trent’anni compagna di Mario Monicelli, anche lui uscito di scena per scelta volontaria.
A questo articolo-collage su Godard seguirà un successivo pezzo (con la terza intervista) più focalizzato alle problematiche del finis vitae.

Ritaglio immagine dell’art. di Repubblica, su Godard (cliccare per ingrandire)

Ritratto di un maestro che ha fatto scuola in tutto il mondo
Belmondo, Mao, Re Lear Dopo i suoi capolavori il cinema non fu più lo stesso
di Alberto Crespi

Quando Jean-Luc Godard gira Fino all’ultimo respiro a cavallo fra il 1959 e il 1960, ha solo 29 anni. È giovane, come i suoi compagni della Nouvelle vague (Truffaut, Chabrol, Rivette, Rohmer, Agnès Varda) cresciuti come lui scrivendo recensioni al vetriolo sui Cahiers du cinéma. Il cinema, invece, è vecchio. Ma quando esce quel film, ridiventa giovane.
È un omaggio ai B-movie americani e il ritratto di una “gioventù bruciata” che sogna l’Italia e l’America. Jean-Paul Belmondo è un delinquentello appassionato di Bugatti e Ferrari; Jean Seberg, capelli cortissimi e niente reggiseno, vende il New York Herald Tribune sugli Champs-Elysées.
Da lì in poi, nulla sarà più come prima.

Fino all’ultimo respiro segna una cesura: esiste un cinema prima di Godard e un cinema dopo Godard. È un’idea di cinema che riprende da Rossellini il piacere di girare nelle strade e di raccontare storie quotidiane, ma al contempo prende la grammatica del cinema hollywoodiano classico, la riproduce e la sconvolge. I tagli di montaggio “sbagliati” e la tecnica del jump-cut (i tagli sull’asse, senza cambiare inquadratura: la nuca di Jean Seberg) sono rivoluzionari e diventano subito linguaggio comune.
In tutto il mondo, giovani aspiranti registi guardano e imparano. Bertolucci e Bellocchio in Italia, Polanski in Polonia, Forman in Cecoslovacchia, Wenders, Herzog e Fassbinder in Germania, i cineasti della New Hollywood in America: tutti figli di Godard.

Ma sono anche gli anni in cui la politica scende nelle strade e invade la vita dei giovani.
Inizialmente la Nouvelle vague è apolitica e autobiografica: Truffaut racconta la propria infanzia in I 400 colpi, mentre un cineasta che non è parte del movimento – Alain Resnais – dà dimensione intima all’Olocausto atomico in Hiroshima mon amour.
Godard decide che non basta e, nuovamente, mostra la via: «Si rimprovera alla Nouvelle vague di mostrare solo gente a letto; ora voglio mostrare gente che fa politica e che non ha tempo di andare a letto». E come opera seconda gira Le petit soldat, che parla della guerra in Algeria mostrando in modo equidistante le violenze dell’FLN e dei terroristi francesi di estrema destra.
Il governo gollista censura il film (uscirà solo nel ’63) e un deputato di futura fama, Jean-Marie Le Pen, chiede l’espulsione di Godard dalla Francia. Il regista è ancora cittadino elvetico.

Gli anni 60 di Godard sono incredibili. Gira una dozzina di film in 7 anni e sono quasi tutti capolavori: Il disprezzo, La donna è donna, Questa è la mia vita, Il bandito delle 11, Bande à part, Una donna sposata.

Poi nel ’67 firma La cinese, sguardo partecipe e ironico sull’infatuazione dei giovani francesi per la Cina di Mao. Fonda il Gruppo Dziga Vertov per realizzare film politici firmati collettivamente, contribuisce a fermare il festival di Cannes durante il Maggio ’68, va a Londra a filmare i Rolling Stones che incidono Sympathy for the devil (le riprese finiranno in One Plus One, alternate a scene sull’attività delle Black Panthers).
L’impegno termina nel ’72 con Crepa padrone, tutto va bene: il Gruppo Dziga Vertov si contamina con i divi impegnati, Jane “Hanoi” Fonda e il compagno Yves Montand.
Poi, Godard sparisce per tre anni. Torna con Numéro deux, un film sperimentale e intimista scritto con la nuova compagna Anne- Marie Miéville che è stata al suo fianco fino alla fine.

Dagli anni 70 in poi
la produzione è incessante (in totale ha firmato 131 “cose” tra film, corti, saggi e documentari) e diventa sempre più teorica ed esoterica.
Lungo gli anni 90 accompagna volentieri i film ai festival prestandosi a conferenze stampa che sono veri show. Realizza persino un Re Lear il cui contratto viene firmato sul tovagliolo di un ristorante, e nel quale coinvolge Woody Allen e Norman Mailer in una rilettura shakespeariana fra le più stravaganti.

Rimarrà per sempre l’icona di un cinema libero, intellettuale, teorico ma a volte straordinariamente popolare e affascinante. In Fino all’ultimo respiro lo scrittore interpretato da Jean-Pierre Melville, alla richiesta su quale fosse il suo sogno, risponde: “Diventare immortale, e poi morire”. Godard è diventato immortale a 30 anni e ha scelto di morire a 91, quasi 92. Missione compiuta.

Prese da Rossellini il gusto per la strada
Cambiò la grammatica codificata a Hollywood
La sua rivoluzione politica e visionaria

Sul set de Il disprezzo (Le Mépris) del 1963. Il film, girato in gran parte in Italia, segue la trama dell’omonimo romanzo di Alberto Moravia. Star: Michel Piccoli e Brigitte Bardot

[Di Alberto Crespi. Da la Repubblica del 14 sett. 2020]

La immagini sono riprese dagli articoli di Repubblica citati
Due pagine da la Repubblica in formato .pdf: La Repubblica del 14 sett. 2022. Godard-Monicelli. pp. 18-19

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