Scrittori

Quattro chiacchiere con Alessandro Baricco su narrativa e vita

Segnalato da Sandro Russo

Apprezzo molto Baricco come scrittore e come divulgatore culturale. Per dirla tutta, credo anche di esserne stato influenzato nel modo di scrivere.
L’abbiamo incontrato spesso su queste pagine, recentemente – leggi qui– come organizzatore di
MARetica, l’annuale rassegna che si tiene a Procida – dove ha anche casa: leggi qui) -, quest’anno inserita tra gli eventi di Procida Capitale della Cultura 2022.
Mi fa piacere partecipare questa intervista ai lettori di
Ponzaracconta su temi di grande interesse, di cui uno mi ha particolarmente colpito: le manifestazioni di affetto sul web all’annuncio della malattia, in controtendenza rispetto alla malevolenza dominante.
Ma leggerete meglio nell’intervista condotta da Raffaella De Santis.
S. R.

L’INTERVISTA
Baricco
“Così è cambiata la mia vita”
di Raffaella De Santis – da la Repubblica del 7 settembre 2022

Per la prima volta lo scrittore parla dopo l’esperienza della malattia.
Mentre esce il suo nuovo saggio, oggi partecipa al Festival di Mantova dove torna finalmente in pubblico. Con un omaggio a Fenoglio.

Impossibile non parlare subito di quello che gli è successo, non chiedergli come sta. Alessandro Baricco ha una bella voce, piena e ridente. «Non pensavo di essere così in forma». Ormai sono passati mesi dall’annuncio della leucemia e dal trapianto. Perlopiù in questo tempo si è riguardato, ma ora torna davanti al suo pubblico: «Ho scelto Mantova per ricominciare. Mi sembrava un bel posto per ripartire, è un festival a cui sono molto legato». In libreria è appena arrivato un suo nuovo saggio intitolato La Via della Narrazione (Feltrinelli), poche pagine molto speciali, brevi folgorazioni sulla scrittura e i suoi segreti che rielaborano il succo di una lezione alla Scuola Holden. Al Festivaletteratura oggi l’argomento sarà però Beppe Fenoglio: «Lo amo molto, per le mie grane ho un po’ trascurato il suo centenario».

L’annuncio della malattia ha scatenato un’ondata incredibile di affetto. Se lo aspettava?
«Mi ha molto stupito, è stata una sensazione bellissima. È strano, attraversiamo vite intere, anche professionalmente parlando, senza sapere in realtà che cosa abbiamo scatenato. Ci sono alcuni regali che quest’esperienza mi ha fatto: sicuramente uno è questo».

E gli altri?
«Ehhh me li tengo per me (ride). Non è il caso di parlarne più di tanto ma francamente l’ho trovata un’esperienza fantastica. Posso dire ufficialmente che sono un uomo molto fortunato, perché sono qua che mi preparo per andare a parlare a Mantova».

Torna anche in libreria con questo piccolo saggio. Il titolo fa pensare alle “Vie dei Canti” di Chatwin.
«Allude al fatto che la narrazione è un tao, come il tiro con l’arco o la cerimonia del tè. È una via in senso orientale, una di quelle discipline fisiche che portano a un compimento spirituale».

Una forma di meditazione
«È un  gesto che si compone di tre gesti: al primo diamo il nome di storia, al secondo di trama e al terzo di stile. Quando queste tre cose accadono in un unico flusso, c’è la narrazione. Nel linguaggio comune confondiamo spesso storia e trama, ma la storia è sferica, è uno spazio, un continente, e la trama è la linea ferroviaria che lo attraversa. L’unico tratto vagamente misterioso è quello dello stile, senza il quale la narrazione rimane orfana, senza voce».

I social hanno liberato la narrazione di massa, trova che lo stile ne abbia risentito, che si sia appiattito?
«Lo stile è una cosa rara, certo, ma mi sembra ce ne sia più oggi di quando ero giovane. Perfino alcuni tiktoker hanno una voce irripetibile, tutta loro».

E tra gli scrittori, qualcuno l’ha conquistata di recente?
«Sono rimasto colpito dal romanzo Gli invisibili di Pajtim Statovci, pubblicato da Sellerio. Ha tutto: trama, stile, voce».

Si può insegnare a scuola ad avere uno stile?
«No, ma la scuola può aiutare a riconoscerlo, può insegnare a cantare meglio. In alcuni casi può domarlo. Lo stile è una specie di cavallo selvaggio, va ricondotto al controllo altrimenti rischia di esplodere».

Al di là di tutto, il talento rimane misterioso?
«Ho visto persone che avevano una voce fantastica,  uno stile pazzesco che non riuscivano a mettere insieme una trama. Così come c’è gente che ha delle storie in testa bellissime ma non sa tradurle in un linguaggio. Purtroppo ci sono anche tanti ragazzi poveri di storie».

Tra le nuove generazioni?
«Non immagina quante storie ho letto alla Holden sui “momenti indimenticabili passati con il nonno”. Come è possibile che un ragazzo nell’immenso fondo della sua mente trovi solo quella storia?».

Come se lo spiega?
«Mi pare un difetto dell’Occidente. A un certo punto mi è accaduto di  andare a insegnare insieme ad altri della Holden in Colombia e siamo rimasti secchi, perché i ragazzi colombiani erano grandi  narratori.
In generale i mondi più acerbi, più poveri, più avventurosi, più aperti, più rischiosi sono carichi di storie. L’Europa è un continente molto vecchio, molto viziato, molto safe , molto normatizzato. C’è un’educazione democratica ormai spessissima, ingombrantissima. Pesa naturalmente il fatto che qui c’è gente che ha inventato il romanzo, è un po’ difficile rilanciare quando hai avuto quei padri».

La cancel culture e l’esasperazione del politicamente corretto fanno parte di questo processo?
«Il controllo dispotico sul linguaggio non fa bene ai narratori. Le democrazie in Europa nel corso del tempo hanno costruito un modello di educazione che riduce al minimo i rischi. Si sacrificano quote di libertà per cercare di costruire dei cittadini morbidi. Qualsiasi movimento di insofferenza è demonizzato a priori. I narratori invece devono essere selvaggi, brutali, indipendenti, liberi, spinosi, fastidiosi.
Abbiamo perso la forza impetuosa dell’Italia post-bellica».

Quell’energia che c’era in autori come Fenoglio?
«È stato un grandissimo costruttore di trame, molto più moderno di tutti quelli che scrivevano ai suoi tempi. Quando ha presentato all’Einaudi La paga del sabato, Vittorini e Calvino glielo hanno bocciato, sostenendo che era troppo cinematografico. E questo la dice lunga. Fenoglio era in anticipo di trent’anni. In Italia abbiamo dovuto aspettare la mia generazione, quella di Sandro Veronesi e Susanna Tamaro, perché il cinema contaminasse in maniera positiva la letteratura. Fenoglio ha uno stile fantastico, una lingua che non esiste, vagamente dialettale, petrosa, dritta. La sua voce la riconosci subito. Come succede per Cormac McCarthy o Thomas Bernhard, ti restano dentro alcune mosse che ti viene da imitare, è capitato anche a me. Il suo insuccesso è largamente attribuibile all’incapacità di marketing dei piemontesi. La sua era una forma di aggressività timida. Mi riconosco in lui anche antropologicamente».

Che lei non sappia promuoversi non è poco credibile?
«Sembra strano dirlo ma francamente penso di sì. Ho fatto tante cose ma parlo poco. Non sono mai andato al Premio Strega per esempio. Da giovane mi scrissero per invitarmi a votare nella giuria, risposi “no grazie”. Non ho mai voluto partecipare, non è la mia tazza di tè. Fare il proprio mestiere senza preoccuparsi della società letteraria è molto piemontese. Forse è un misto di arroganza e timidezza, una ribellione venata di paura».

È anche poco attivo sulla piazza social.
«Ho aperto un mio profilo Instagram per un anno durante la scrittura di The Game, ma scaduto l’esperimento con grande felicità l’ho chiuso. Proteggo la mia vita».

La malattia però l’ha annunciata in Rete.
«Certo, ogni tanto devi dare una grande notizia e la dai. Ma quello non è il mio ritmo, ho un senso della privacy, della riservatezza che custodisco».

Per queste ragioni non ha mai scritto autofiction?
«Il solo libro in cui ho raccontato delle storie che appartengono al mio mondo familiare è Emmaus, che mi è costato un’enorme fatica. Per il resto ho scritto di me in modo indiretto». 

E da lettore come giudica chi racconta solo di sé?
«Carrère è un grande, uno scrittore che ammiro moltissimo, gli invidio il giro di frase, la vitalità, ma confesso che a volte mentre leggo i suoi libri mi vergogno per lui».

Racconterà mai la malattia?
«Forse tra vent’anni scriverò la storia di un postino viennese del 1921 e là dentro ci sarà quello che ho vissuto, chissà».

Nel nuovo saggio cita Lacan. Scrivere è un processo psicoanalitico?
«È un luogo comune pensare che scriviamo solo ciò che abbiamo vissuto e censuriamo. In realtà narriamo la parte mancante di noi, quella che non siamo riusciti a portare a compimento. È la pagina bianca della nostra esistenza che scriviamo, il futuro. In questo senso il gesto di narrare è un tao. È un rito quotidiano, come lo yoga, come respirare. Presume una cura, una lentezza, una pazienza. E si può imparare, proprio come il tiro con l’arco».

La Via della Narrazione (Feltrinelli pagg. 48, euro 5).
Il 7 settembre Baricco sarà a Mantova alle 17 in Piazza Castello con una lezione su Beppe Fenoglio

Ci sono alcuni regali che questa esperienza mi ha fatto: di certo uno è questo affetto

Passiamo intere esistenze senza sapere in realtà che cosa abbiamo scatenato cosa abbiamo creato

Non sono mai andato al premio Strega Mi scrissero per invitarmi a votare. Dissi no

Invidio i giri di frase di Carrère ma a volte leggendo i suoi libri mi vergogno per lui

Immagine di copertina. Ritaglio dall’articolo di Repubblica. Foto di Baricco, di Anna La Naia

 

La Repubblica del 7 sett. 2022. Intervista a Baricco di Raffaella De Santis.pdf

[Da la Repubblica del 7 settembre 2022]

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