Ambiente e Natura

Lontano, lontano… ovvero la concretezza

di Pasquale Scarpati

C’era una volta un paese lontano, lontano. Era così lontano che tutto era lontano. Lontani tra loro le case, gli edifici pubblici; lontani i campi per le attività sportive, e lontani gli uni dagli altri persino i campi coltivati: insomma tutto era lontano. In lontananza, lassù su una collina, vi era anche un grosso edificio. Era la sede del governo del paese.
Qui, in determinate scadenze, accedevano molte persone. Esse, per accedervi, venivano sospinte dal basso. Poiché la salita era un po’ ardua e ripida, per accedervi queste persone formavano singole cordate e battevano vari sentieri. Nel salire si tenevano per mano e, per incoraggiarsi su quei sentieri oscuri e pericolosi, cantavano inni che, anche se avevano musiche diverse, sostanzialmente ripetevano le medesime parole quasi sempre al positivo e obbligatoriamente al futuro (miglioreremo, faremo, daremo ecc. ecc ; rassomigliavano alla canzone l’anno che verrà del compianto Dalla). Pertanto ogni abitante non badava più alle parole degli inni (sempre le stesse) ma spingeva quelli che sapevano cantare meglio o che pensava più vicino al suo “orecchio musicale”.

Arrivati in cima, ognuno prendeva possesso di una parte dell’edificio: alcuni correvano a destra, altri al centro e altri ancora a sinistra. Dopo un po’, alcuni di loro si riunivano per prendere delle decisioni. In genere facevano così. In un giorno stabilito si riunivano intorno ad un tavolo. Di questi ve n’erano di tutte le forme: quadrati, rettangolari, ovali e rotondi.  Per questo già discutevano quale adoperare. Qualcuno già insoddisfatto passava da un’ala ad un’altra del palazzo o addirittura si rifugiava in una piccola stanza insieme con pochi altri. Dopo aver deciso intorno a quale tavolo sedersi, eleggevano un presidente, un segretario verbalizzante ed un tesoriere.
La discussione il più delle volte avveniva così: si leggeva l’ordine del giorno che spesso consisteva in un solo punto. Quel giorno, ad esempio, si parlava degli edifici scolastici.
Da più parti si sottolineava l’urgenza di porre mano a quegli edifici, divenuti nel tempo piuttosto fatiscenti. Erano tutti contenti nel discutere di questo argomento considerato di vitale importanza per le generazioni future. Il presidente diede la parola alla prima persona seduta alla sua destra o alla sua sinistra (già in precedenza oggetto di gran discussione) e questa senza indugio disse che agli edifici bisognava togliere le barriere architettoniche: così fu verbalizzato. Il secondo disse che gli edifici avevano bisogno di più ampie finestre perché la luce è importante: così fu verbalizzato. Il terzo disse che i banchi sarebbero dovuti essere ergonomici con o senza rotelle ed in numero adeguato alla grandezza dell’aula e all’età degli studenti: così fu verbalizzato.


Ma per quanto riguarda le rotelle non posso non dire ciò che accadde. Uno dei membri della commissione (forse psicologo) affermò che le rotelle erano importanti perché rappresentavano nientemeno che… “il divenire”. Al che un altro immediatamente propose che fossero colorate per essere più appariscenti. Non l’avesse mai detto! Si accese una violentissima discussione e si rasentò la zuffa. C’era, infatti, chi proponeva l’azzurro (perché simbolo del cielo), chi il rosso (simbolo del sangue versato per la patria), chi il giallo, chi il bianco, chi (forse volendo mediare) proponeva un rosa pallido (o pallido rosa!?) o un arancione. Insomma un parapiglia. Alla fine fu deciso (con buona pace di tutti) che i banchi posti a destra della cattedra avessero le ruote di un certo colore, quelli al centro di un altro e quelli a sinistra di un altro ancora. Ma non tutti furono contenti; qualcuno propose (anche per contenere la spesa) che sarebbero dovuto essere come quelli di sempre: senza rotelle. Per questo fu tacciato dagli avversari di essere reazionario, mentre da quelli più vicini come povero conservatore e non progressista, o usando un eufemismo ‘nostalgico’.


Il quarto pose l’accento sui bagni.  “A parte – disse – che dovranno essere ampi e spaziosi con bidet e docce capienti, deodoranti e profumi (anche in questo caso, altra accesa discussione perché qualcuno asseriva che quel tale profumo era “troppo maschile” o “troppo femminile”. Volarono anche parole grosse quali: sessista, maschilista, retrogrado ecc. ecc., un putiferio) essi devono essere in numero adeguato ai piani e al numero degli studenti.
È un atto di civiltà – concluse. Così si verbalizzò.

Il successivo pose l’accento sui laboratori e sulle loro dotazioni. Qui sorse la discussione quali sarebbero dovute essere: se, ad esempio, i computer sarebbero dovuti essere di questa o di quella marca. Non mancò poi la discussione sui pannelli solari e su ogni cosa che potesse servire per l’ambiente ed il risparmio energetico. Anch’esso fu verbalizzato.  Insomma ognuno diceva la sua e ogni cosa si aggiungeva a quella detta in precedenza. Qualcuno forse intuendo qualcosa, ironicamente così si espresse: “Questo verbale mi sembra un elettrodomestico ultramoderno! Aggiungendo le cose le une alle altre sembra appartenere, infatti, alla classe +++ all’infinito”.
Tutto, pertanto, fu puntigliosamente verbalizzato come dire con… punti e punti e virgola.
Il tesoriere infine espose il budget. Anche qui un’ampia discussione, ma alla fine fu stanziata una certa somma. Per dare maggiore risalto al tema di quel giorno, fu coniato (è il caso di dirlo) per esso anche un nome: Fondo Scuola Pubblica che in acronimo si ridusse a FSP. Anch’esso messa a verbale.
Dopo molto tempo e tante discussioni, tutti uscirono soddisfatti per avere stilato una serie di accorgimenti si disse… all’avanguardia. Pertanto fu annunciato ai quattro venti che di lì a breve sarebbero sorti nuovissimi edifici scolastici.
“A breve anzi brevissimo tempo” – si disse – perché le antiche e pessime pastoie burocratiche, che quali appiccicose bave di lumache rallentavano il cammino, sarebbero state tutte eliminate a colpi di…parole. Tutto il mondo ce l’avrebbe invidiata!

Scesero di corsa i messi per portare i plichi ai vari dirigenti. I banditori, per attirare l’attenzione, suonarono i loro strumenti (sì, perché ogni banditore ne aveva uno diverso da quello degli altri. C’era, infatti chi suonava la tromba, chi il trombone, chi la grancassa, chi il violino (senza sviolinare!) e chi addirittura riesumò il vecchio campanellino come quando ’u parricchiane  invitava noi bimbi alla “dottrina”). Questo perché essendo un paese lontano lontano, il suono doveva arrivare dappertutto in lontananza. Soprattutto veniva bandita ai quattro venti la sigla FSP. Non si faceva che parlare di quella. Alla fine i plichi furono posti sulla scrivania dei dirigenti entusiasti e fiduciosi.

Come si sta nell’atto di bere un ottimo bicchiere di vino o di assaggiare un’ottima pietanza, così quelli si affrettarono ad aprire e a leggere. Ma, dopo aver letto sommariamente tutta la prolissa introduzione – assomigliava agli antichi decreti reali quando nell’intestazione una intera pagina era dedicata ai vari titoli e prerogative del sovrano: ad esempio S. M. per grazia di Dio re di…, re di…, principe di…, duca di…, signore di…, gran ciambellano di…, ecc… ecc…) visto l’art…, visto…., considerato…… ecc ecc. -, ben presto sbiancarono.
Nulla infatti o quasi di ciò che stava scritto era attuabile. Ad esempio per mettere i pannelli solari bisognava rifare tutti i solai oramai datati. Non era possibile ampliare le finestre perché i muri, già vecchi e costruiti con altri criteri, avrebbero perso consistenza e robustezza rischiando di far crollare l’edificio. Per i bagni neppure a parlarne sia per mancanza di spazio sia perché sarebbero dovuti essere ubicati in un altro punto dei piani e quindi si sarebbe dovuta rifare tutta la rete fognaria, se non tutto l’edificio.
Le uniche cose in cui ci si poteva “arrangiare” erano i banchi con o senza rotelle anche se molte di queste sia a destra sia al centro sia a sinistra cigolavano oppure ruotavano per fatti propri come succede con i carrelli della spesa quando le ruote girano contemporaneamente chi a destra chi a sinistra e si fa fatica a portarli nella direzione voluta.
A dire la verità alcuni banchi con le rotelle furono visti circolare nei corridoi per un po’ di tempo come carrelli porta-vivande nell’ora della mensa (andavano all’impazzata di qua e di là sospinti anche dagli alunni che si divertivano un mondo), poi non se ne seppe più nulla. Oltretutto risultarono essere molto pericolosi: un bimbo, giocando senza… freni, era andato a sbattere contro lo spigolo della cattedra ed il povero insegnante aveva passato i guai! (il solito “capro espiatorio”). Inoltre i banchi stessi (anche quelli senza rotelle) non potevano essere messi in una posizione idonea per ricevere la luce, essendo le aule piuttosto piccole: quindi essi erano obbligati a restare là dov’erano. Si riuscì soltanto a costruire una piccola rampa per i disabili all’ingresso dell’edificio ma non nell’interno e niente ascensori. Alcuni dissero che non era possibile fare ciò che stava scritto per la vetustà del luogo, altri per mancanza di fondi.
Mancando inoltre gli spazi, ai laboratori potettero essere dedicate salette piuttosto anguste dove davanti ad un computer piuttosto “anzianotto” potevano sostare dai due a tre alunni!
Del denaro stanziato (e anche qui ci si erano riempite le… orecchie) ne arrivò solo una piccola parte: qualche spiccioletto. Il motivo nessuno lo seppe mai. Circolarono varie voci ma nessuna fu accertata.

Dai soliti perdigiorno che non fanno altro che stare lì a commentare e a criticare tra un bicchiere e l’altro, il progetto FSP fu immediatamente ribattezzato Fondi Senza Progetto oppure, dai più, Fondi Senza Prospettive.
Intanto sulla carta gli edifici scolastici rimasero i migliori del mondo.

La stranezza era che nonostante il gran volume cartaceo che vi si produceva, a volte inconcludente, finito il mandato quelli, una volta discesi, non aspiravano che a risalire “al grosso edificio lassù su una collina”, pur asserendo che là la vita era molto dura e sfiancante. Ma malgrado tutto, la stragrande maggioranza di loro era di nuovo risospinta lassù.

“Tutto ciò accadeva – come asserì qualcuno – perché tutto e tutti erano molto lontani gli uni dagli altri, insomma ognuno andava per fatti suoi! Ma non poteva essere diversamente perché quello era un paese… lontano, lontano”.
Da tutti, ma non da…
Pasquale

Nota della Redazione
Immagini di copertina e nel testo: opere di Silvano Braido (Treviso, 1946), artista grafico

 

1 Comment

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  1. Luisa Guarino

    1 Settembre 2022 at 17:09

    Chi ama scrivere, specialmente se non di cronaca o fatti reali, è sempre un po’ narcisista, e scrive più per sé che per gli altri: lo stesso vale per noi di Ponzaracconta, s’intende… Ma per qualcuno di più. Questo scritto, peraltro lunghissimo, non se ne abbia a male l’autore, lo dimostra ampiamente. A partire dal titolo: “Lontano, lontano… ” d’accordo. Ma “la concretezza” dov’è? Il testo è una digressione/elucubrazione infinita: prima o poi ci si lasciano le penne, seppure in senzo metaforico. Alla fine, la cosa che si apprezza di più è la scelta delle immagini dell’artista Braido: complimenti a chi l’ha curata.

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