Attualità

L’omicidio di Civitanova Marche. Le parole per descrivere l’indicibile

segnalato da Sandro Russo

Chiediamo agli altri, a chiunque sia in grado di aiutarci, anche ai giornalisti e agli scrittori, di dirci qualcosa, in una situazione che non riusciamo a capire.
È successo con gli spari del 2018 a Macerata su un gruppo di migranti, con l’omicidio di Willy, a Colleferro, nel settembre 2020, con quest’ultima vicenda dell’ambulante ucciso a Civitanova Marche, l’altro giorno.
Davanti alla violenza cieca, insensata, non abbiamo parole né chiavi di comprensione. Ci manca perfino una categoria in cui includere l’evento: Razzismo? Tensioni sociali? Follia autodistruttiva senza speranza del genere umano?
Si dirà: Ma la violenza è sempre esistita, anzi, è connaturata all’uomo.
Cambiamo la domanda allora: Come, quando e perché ci siamo illusi che così con fosse?

Intanto un uomo è morto senza ragione. Altri ne morranno. Cosa pensare?
Tre articoli da
la Repubblica dei giorni scorsi
S. R.

Il commento
La violenza cieca che nega il futuro
di Chiara Valerio 

Mentre leggo le prime notizie che arrivano da Civitanova Marche, sull’assassinio brutale, in pieno sole, in pieno centro, lungo Corso Umberto I nell’ultimo venerdì di luglio, temo ciò che diremo, penseremo, ascolteremo sulle ragioni per le quali ciò che è accaduto, è accaduto. Alika Ogorchukwu è stato ammazzato con la stampella che gli reggeva i passi in seguito a un incidente d’auto, così ha dichiarato il suo avvocato. L’aggressore, che è già in stato di fermo, ha dichiarato invece che Ogorchukwu aveva importunato la fidanzata. La squadra mobile di Macerata ha richiesto e sta visionando i video delle telecamere di sicurezza, le testimonianze degli astanti indicano in Ogorchukwu una presenza abituale nella zona.

C’è un racconto di Moravia, Ladri in chiesa, se non ricordo male, che racconta di un lupo che ha fame per lui e per i cuccioli, ma non trova cibo. Così, traguardando la valle, scorge una luce e si muove, rapido, verso quella. La luce viene da una casa dove vive un contadino, che sta per mettersi a letto. Il lupo entra nella casa del contadino perché ha fame, il contadino si alza e imbraccia il fucile perché ha paura. E il contadino, appunto, ha ragione perché ha paura, e il lupo pure, in effetti, ha ragione, così il contadino spara e il lupo salta. E la ragione, chiosa Moravia, porta alla morte. Quando da ragazzina ho letto il racconto, che fa parte dei Racconti romani, ho capito – come la luce che vede il lupo, come il lampo dello sparo del contadino – che la ragione, in sé, non è qualcosa che sempre risolve. Ma che può essere utilizzata per giustificare.
Un’aggressione (il lupo), un delitto (il contadino).

A Civitanova Marche gli aggettivi – quasi la geografia sia una indicazione di carattere o temperamento, o quasi sia memoria, e non lo è, chiariva Wlodek Goldkorn domenica sulle pagine di Robinson – indicano che l’aggredito è nigeriano, e l’aggressore italiano. Non è però uno scontro di popoli, ma di società civile, di immaginazione politica. È uno scontro di stanchezza dopo anni di pandemia, all’ingresso di una crisi economica, per alcuni reale, per altri percepita, è la fine di quella certezza per cui l’altro esiste con le proprie differenze e queste differenze non sono, d’abbrivo, né buone né cattive, né amiche né nemiche, ma rappresentano possibilità e, con ottimismo, occasioni. Che succede quando qualcuno sta picchiando un uomo in una strada, e altri, uomini e donne, assistono e non fanno niente, ma dicono. Dicono fermati, senza intervenire. Dicono basta, senza muoversi. Per paura o perché dimentichi di umanità o forse speranzosi, pensano che nulla di irreparabile accadrà, niente, che sarà una baruffa da raccontare. Succede che ci siamo disabituati a considerare le conseguenze. Che non siamo più capaci di valutare quando a una causa corrisponde un effetto. L’illogicità è una forma di violenza.

Ogni oltraggio, ha scritto Gadda (La cognizione del dolore) è morte, e tanto resta scritto e sentito, nel cuore e negli arti. Non conosco la vita di chi è stato ucciso, ma so che è finita, e non conosco la vita di chi ha aggredito, ma so che è spezzata.

Non comprendo e non ammetto le ragioni di chi uccide, e so che le stampelle sono state pensate per sorreggere un essere umano e non per annichilirlo. Non accetto che ci siano partiti politici – esseri umani all’interno di quei partiti politici – che useranno la geografia per dire che l’Italia non è un Paese abbastanza sicuro per gli italiani, che gli stranieri sono qui per sottrarre risorse, che chi è arrivato in un posto è diverso da chi ci è nato. Se è vero che un uomo solo ha alzato una stampella per colpire, è vero altrettanto che il clima narrativo, emotivo, politico intorno a ciascuno di noi, è un clima di diffidenza, di lotta per la sopravvivenza, di bassa fiducia nella scuola come principale strumento di prassi civile e di palestra etica.
È morto un uomo che aveva un figlio, che non aveva neppure quarant’anni, che aveva deciso di vivere e lavorare – come poteva, come gli riusciva – nel nostro Paese e ciò che ha trovato è stata la mancanza della possibilità di un futuro.
La morte violenta di Alika Ogorchukwu mi dice solo questo – e questo vorrei che fosse detto, gridato, preteso politicamente – mi dice che da oggi siamo ancora di più un Paese nel quale non è possibile immaginare, e avere, un futuro.

Invece Concita
L’indignazione a senso unico che non vede l’abisso
Se le parole ancora servono
di Concita De Gregorio

C’è una violenza che io non so, una violenza che genera disperazione, rassegnazione, che suscita sgomento e impotenza. Ti chiedono un commento su un essere umano che ne massacra un altro a colpi di stampella e tu dici no, scusate, non riesco non so — poi resti sola a pensare alla stampella e pensi che forse è quella la chiave, il rebus da decifrare inviato dagli dei dell’Olimpo annoiati da questa moltitudine tracotante di uomini che si credono dei.

Siamo tutti storpi, siamo tutti zoppi e sordi e ciechi e invalidi, abbiamo tutti perso l’equilibrio ma no, nemmeno questo puoi dire. Tutt’al più puoi chiamare al telefono un amico poeta, sì ti risponde, e chiedergli vorrà dire che siamo arrivati alla fine, secondo te? Ma non lo puoi scrivere perché il popolo degli indignati che non serve quando c’è da salvare uno che muore, caso mai lo filma col telefono, però è presentissimo quando c’è da dire vergognati, chiedi scusa, la stampella, speculare sugli invalidi.

Una nota del sindacato. Riabilita gli storpi. Hai umiliato i diversamente abili. Io non so. Non so cosa ci aspetti, in questo mondo di gente che corre a 300 all’ora e poi gli fanno un funerale da faraone, in questo racconto che la giustizia non esiste, la democrazia ha perso e vince chi convince perché è ganzo, più svelto, fa clic, se per caso provi ad obiettare che è da criminali, prendersela con chi è più debole, ti dicono che sei buonista, passatista, levati che hai smesso di avere parola. Le parole, avrei detto un tempo, sono tutto. La gentilezza è quel che distingue gli umani. La mano tesa, aspettare chi resta indietro. È tutto finito, davvero?
Allora arrendiamoci, cosa si fa campagna elettorale a fare. Allora è tutto già deciso.

L’amaca
Aspettando il pettirosso
di Michele Serra

Il mendicante ammazzato di botte da un energumeno non è un segno dei nuovi tempi. Al contrario, è segno che il nostro tempo ristagna, e tutto ciò che ristagna si guasta e marcisce.

Negli anni Ottanta i due teenager nazisti di Verona che si facevano chiamare Ludwig bruciavano vivi i senzatetto e i drogati, una maniera spiccia per arianizzare il mondo. “Gli incendiarono il letto sulla strada di Trento, riuscì a salvarsi dalla sua barba un pettirosso da combattimento”, così la raccontò De André nella sua terribile Domenica delle salme (1990), ripreso da Maurizio Maggiani nel suo bel romanzo “Il coraggio del pettirosso”.

Il sadismo e la brutalità contro gli indifesi si passano il testimone da generazioni. Il problema non è dunque l’insorgenza inspiegabile dell’odio e della prepotenza; piuttosto è la sua implacabile sopravvivenza, come se la civiltà fosse solo una finzione.
E a renderci ancora più tristi è la scomparsa, o piuttosto il mancato avvento, del pettirosso da combattimento: tutti che fanno video, tutti spettatori, ben pochi hanno il coraggio di entrare in scena. A Recanati (ma che succede nelle Marche, così belle e un tempo così pacifiche?), poche ore dopo la macellazione a mani nude del mendicante a Civitanova, un barista ha fermato un omaccio del posto che stava accoltellando un africano, difficile dire se per razzismo o per generica ferocia. Dunque si può. Non solo si deve: anche si può.

Sui media facciamo scialo della parola “eroi”, sbrodolandola su qualunque persona (infermiere, volontario, soccorritore, cane da salvataggio) che sta semplicemente facendo il suo mestiere. Ma non abbiamo bisogno di eroi, abbiamo bisogno di pettirossi. Non di retorica, ma di mani forti che sappiano disarmare.

 

Note
Stanley Kubrick ((New York, 1928 – St Albans (U.K), 1999) dai cui film sono prese le immagini che corredano l’articolo (tranne l’ultima) è il grande regista che più di ogni altro ha ragionato su- / messo in scena la- natura violenta e folle dell’uomo.
Film esemplari al riguardo (filmografia parziale):
Orizzonti di gloria (Paths of Glory) (1957)
Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb) (1964) (sul sito, leggi qui).
2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey) (1968)
– Arancia meccanica (A Clockwork Orange) (1971)
– Barry Lyndon (1975)
– Full Metal Jacket (1987)

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