Ambiente e Natura

Una cura speciale

di Francesco De Luca

 

 

Andò in America da giovane. Non avrebbe fatto quella scelta se non fosse stato per le insistenze del cognato.

Nato sopra gli Scotti aveva il suo futuro segnato dal lavoro nei campi. Il padre lo aveva chiamato ai doveri di produttore prima che di consumatore, in tenera età. Di terreno ce n’era tanto: vigna, orto, fieno, e poi galline, conigli, capra, colombi. Tanto lavoro, anche perché tanta era la famiglia: cinque figli di cui due femmine.

Veruccio però era contento così. Faceva quello che aveva visto fare al padre, agli zii, ai vicini. Il lavoro dei campi soddisfaceva le richieste. Eppoi il mare. D’estate con gli amici, con le nasse, le reti, i camage (filo con amo fisso, legato allo scoglio), a traino, a tuotane. La barca ce l’aveva un parente, e per muoverla ci volevano le braccia, mai tante quelle a disposizione.

Ponza negli anni del dopoguerra ‘15 – ‘18 andava risistemando la vita cittadina. A fare da traino era la marineria mercantile. Messa in ginocchio con la guerra andava ripristinando le rotte commerciali: con la Sardegna, con Napoli. Frotte di giovani si imbarcavano sui motovelieri. Alcuni giovani però scelsero l’emigrazione negli Stati Uniti. Furono i primi, subito dopo la pace, e furono quelli che da oltre Atlantico andavano prospettando, negli scambi epistolari, come quella terra fosse prospera. “Io stongo bene qua, così spero voi di là. Qua si lavora come  pazzi, ma si guadagna bene. Stono a Bruccolino con altri ponzesi di Forna e con tanti taliani. Ogni sabato la paga gira che è na bellezza. Venite pure voi”. Questo era il clima delle lettere che si ricevevano.

Veruccio aveva puntato una ragazza di sopra gli Scotti, tale Mamena, la cui sorella era andata in America chiamata da un fratello. Aveva trovato partito e si era sposata, Mariannina, pure lei a Bruccolino, dove aveva casa sua. Il marito aggiustava le strade ed era sempre in cerca di gente per lavorare.

Veruccio a Ponza faceva una vita semplice e spensierata. In campagna, va bene, ma poi, in primavera c’era la mattanza delle quaglie alla Scarrupata, a ottobre  i merule e i maravizze, e poi in estate la cala d’u bagno viecchio lo vedeva  rimestare fra gli scogli in cerca di patelle, tufelle, purpetielle. Spasso sicuro con un utile finale.

Nel 1933 si sposò. Dopo un anno, un figlio. La casa l’aveva ricavata da quella del padre, perché i due fratelli erano emigrati anche loro, la terra dava quello che poteva, ma da oltre Atlantico gli inviti ad emigrare si facevano pressanti. A Ponza Veruccio godeva di una discreta soddisfazione pur se le possibilità economiche erano scarse.

Decise di provare l’America. Aveva i parenti come supporto e anche il lavoro gli era già stato assicurato.

Si trattava di lasciare Ponza: quel buon vino rosso che faceva nelle catene vicino a funtana, le patelle d’ u Cazone ‘u Muto, arcere, le murene a Natale  cu i camage abbasce a u bagno Viecchio. Tutto bello ma… la vita si imponeva con una esigenza economica maggiore.

Partì. Dopo un anno mandò a chiamare la moglie Mamena. Ben felice di ricongiungersi, ma… e il figlio piccolo? Venne lasciato presso la famiglia di una sorella di Veruccio (una cognata). Appena grandicello sarebbero venuti a prenderlo. Anzi no… fra qualche anno sarebbero tornati all’isola. E già perché Veruccio non amava molto il lavoro d’a scavescion (gli scavi). Stavano nascendo gli strabilianti grattacieli di Manhattan, e le fondazioni erano accurate. Anche ben pagate. Tant’è che Veruccio e Mamena ebbero una bambina, Rosa.

Il figlio Matteo a Ponza cresceva bene sotto le cure della cognata ma l’età non gli permetteva di raggiungere i genitori e l’età di Rosa impediva ai genitori di far ritorno a Ponza.

La guerra complicò tutto. Veruccio non se la sentì di rimpatriare. Le sue condizioni erano enormemente migliori di quelle dei paesani a Ponza. Nulla trapelava dalle lettere e quello che non si scriveva faceva capire il dramma che si viveva. Ponza, isola di confino antifascista, di squadristi, di militari incolleriti e depressi.

Nel 1950 Veruccio e Mamena tornarono a Ponza. Rosa, 15 anni, rimase coi parenti, Matteo era ormai un giovanotto. Si era arruolato in Marina. Un anno di pura evasione passò Veruccio. Mamena si riappropriò delle usanze paesane. A settembre a vendemmiare con le amiche ncopp’u chiano, a dicembre la novena dell’Immacolata. Il parroco aveva scritto una canzone proprio bella:

Se a Massabielle dicesti
io son l’ Immacolata
di Ponza incoronata
ripetilo dal ciel.

Veruccio riprovò i brividi del bagno alle prime ore dell’alba. Dove? Neanche a dirlo: alla caletta del Bagno Vecchio. Anzi, per dare uno smacco ai suoi vicini  ‘scottesi’ picconò i gradini finali del sentiero d’accesso alla cala, rendendoli più sicuri. L’acqua piovana li aveva resi scivolosi. Quella roccia bianca è tenera al taglio (taglimme) e altrettanto alla pioggia.

Ma un dilemma divenne imperioso: ritornare negli States o no? Mamena storse il naso. Rosa lavorava in un supermercato e… già c’era un amore che l’aspettava. La presenza della mamma non era indispensabile. “Vai tu – disse a Veruccio – vacci per un po’ di anni… vedi quanto prenderai di pensione e poi ritorni“.

Questa soluzione non era la migliore. Veruccio avrebbe voluto non seguirla ma c’era il discorso della pensione. Quella era una questione che andava vista.

Ripartì. Lì gli dissero che con un paio d’anni avrebbe potuto godere di una pensione più che soddisfacente in Italia. Dove il dollaro valeva 1360 lire.

Rosa si sposò. Veruccio si attardò a tornare. Quasi ci prese gusto. Viveva da solo, buona paga, qualche compagnia la trovava sempre. C’era soltanto un bruciore allo stomaco, di tanto in tanto, che lo irritava. “Fatti le analisi” – premeva la figlia.

“Va bene”  – l’accontentò il padre.

In America il fenomeno era esplodente e il medico fu spietato: “Ha un cancro. Piccolo e agli inizi”.

Veruccio vide barcollare la sicurezza in cui s’era insediato. Lasciò gli USA e ritornò a Ponza. A Napoli, dove il figlio era di stanza presso la base NATO, come colonnello della Marina, si sottopose ad un’ulteriore visita. La diagnosi fu la stessa.

A Ponza il bruciore gli si attenuava. Riprese le sue abitudini, con maggiore moderazione, anzi con la calma del  ‘paziente’. Si nutriva parcamente e con prodotti genuini. Zappuliàva (zappare con leggerezza) quel tanto che sfiorava la fatica, cemmiàva (tagliare le cime dei pampini) fino a che il sudore non gli inondava la fronte. Beveva  acqua del suo pozzo, vino della sua cantina, ortaggi delle sue catene, e soprattutto ogni mattino scendeva giù al Bagno Vecchio a farsi il bagno. Fra quei sassi che l’avevano visto annaspare bambino, insuperbirsi da adolescente, appagarsi uomo maturo. Un bagno ristoratore, da solo, a parlare col mare e dirsi cose. Una nuotatina, fresca, rilassante, curativa.

“Come mai fai il bagno di prima mattina?
“Perché tengo nu canchero e… cu chistu bagno nun sengo dulore. Io me curo accussì”.

Un bell’uomo, Veruccio, alto, corporatura regolare, viso sereno, capelli bianchi, occhi chiari. Come il cielo di sopra gli Scotti. Animo semplice, come i ponzesi contenti d’essere nati su uno scoglio che impegna l’esistenza ad essere goduta per quella che è.

Morì l’anno dopo.

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