Ambiente e Natura

Enzo, da Procida, prigioniero dei pirati

segnalato dalla Redazione

 

Concita De Gregorio, che è una scrittrice-giornalista che seguiamo, una storia di mare (anche se estrema) e Procida che quasi quasi è robba nosta… sono tre motivi per cui questo scritto è irrinunciabile per i lettori di Ponzaracconta. Che per altri giri è imparentata anche con Procida racconta.
Per non parlare della nostalgia e del ricordo della sua isola che ha sostenuto Enzo durante i 317 giorni (e notti) che è durata la  prigionia.

LA STORIA
Un anno prigioniero dei pirati
di Concita De Gregorio – Da la Repubblica del 12 giugno 2022

Enzo è l’ufficiale della petroliera Savina Caylyn dirottata nel 2011 dai banditi somali. Originario di Procida ha svelato per la prima volta la sua esperienza in occasione del Festival sull’isola.

– Enzo, del suo sequestro possiamo parlare davanti alla bambina?
– Certo, le ho detto tutto.
– Come glielo ha detto?
– Che è stato come Pirati dei Caraibi, quel film.
– E la bimba? Lei mi ha chiesto se avevano la benda sull’occhio. Ho detto no, niente benda. Vero Zahira?
Zahira ha sei anni, un vestito da principessa e in testa un cerchietto da unicorno. Serissima, seduta coi piedi che dondolano e non toccano terra, dice: – Non avevano le bende, i pirati di papà. Io lo so perché ho visto le foto.

I soldi piovevano dal cielo. Dodici milioni e mezzo di dollari, buttati da un aereo. I primi sono arrivati alle sette di mattina del 21 dicembre. I primi nove milioni. Qualche borsa si è rotta, stava affondando. L’hanno recuperata per miracolo. Sono borse fatte apposta per essere buttate a mare: borse coi galleggianti e la sacca d’aria fra un involucro e l’altro. Ma alcune si sono rotte, mi veniva da piangere. Se affondano, pensavo, è finita qui. Ma invece poi le hanno recuperate. Hanno messo tutti i soldi sul tavolo, a bordo: mucchi di banconote, un’infinità, e hanno cominciato a dividersele. Ridevano. A mezzogiorno sono piovuti da un altro aereo altri tre milioni. Questi erano per noi, per gli italiani. Ci sono voluti ancora venti giorni prima della liberazione.

Dall’8 febbraio 2011 al 12 gennaio 2012. No, non dica undici mesi, è poco. Dica 317 giorni, che è molto di più.

Ho perso 39 chili. Ho fatto a un compagno qualcosa di cui non mi perdono e per cui ogni anno, quello stesso giorno, lo chiamo e chiedo scusa. Sono stato incaprettato per aver giocato con una corda fatta a forma di palla. Sono stato messo in cerchio insieme agli altri prigionieri attorno a una tanica di benzina, lo facevano ogni volta che passava un aereo: «Se ci prendono noi siamo già morti», dicevano, «ma morite anche voi, moriamo tutti». Mi hanno picchiato. Ho avuto una pistola puntata alla tempia. Ho chiesto che mi dessero il proiettile che non mi avevano sparato, quando sono sceso. Voglio ricordarmi sempre quanto ci è mancato, un niente: lo tengo qui con me, per memoria. Non ho mai dormito una notte intera. Non hanno mai spento, per 317 giorni e 317 notti, quella musica: Maanta, Maanta, Maanta. La usano, a terra, per ammansire i cammelli.

Erano le 7 e 40 del mattino. Io, terzo ufficiale addetto alla navigazione, stavo salendo sul ponte. Ho sentito un colpo di mortaio. Sono salito più in fretta. Loro erano in cinque, avevano K47 e M51, mortai, e pistole. Noi eravamo ventidue, diciassette indiani e cinque italiani, due di Procida. Non avevamo armi, solo acqua e maniche di vapore. È stata una battaglia di secchi contro mitragliatrici, è durata poco.

La Savina Caylyn, 242 metri per 105 mila tonnellate, petroliera della flotta D’Amato, è caduta in mano ai pirati somali a 1187 miglia dalla costa, in pieno Oceano Indiano. Ci hanno dirottati in rada, sono salite a bordo un centinaio di persone. Cento pirati. Ci hanno stipati sottocoperta. Le luci erano sempre accese e la musica, come ho detto, sempre alta e sempre la stessa. Ho compiuto quarant’anni da prigioniero. I miei genitori li ho sentiti cinque volte, per radio. Dovevamo dare assicurazioni sulla nostra salute. Se ho pensato di non tornare più? Non lo so, non me lo voglio ricordare. Ho avuto paura quando sono finiti i viveri, il gasolio e l’acqua. È stato allora, il 14 settembre, che mi hanno costretto a fare un gesto verso un mio compagno che non avrei voluto, non avrei dovuto fare. Non mi è bastato il coraggio di farmi sparare e lui ogni anno mi ripete non potevi fare diversamente, Enzo, eri costretto, chiunque avrebbe fatto lo stesso al posto tuo ma io no, io non mi sono perdonato. Il coraggio mi è tornato dopo, quando uno dei pirati ha smontato davanti a me la sua pistola e per sfida mi ha detto «vediamo se la sai rimontare, ci sono tutti i pezzi». In inglese, ci parlavamo in inglese. Ne manca uno, di pezzi, gli ho risposto: manca il proiettile con cui mi devi sparare. Ma non serviva più a niente, il coraggio di dopo. Ho tenuto un diario, ho scritto a stampatello fitto fitto. Ho disegnato ogni giorno: Procida, tanto. Ecco guardi: questi sono i disegni. La mia casa, la mia isola. Ho dovuto pescare per loro, ho fatto seccare il pesce, ho preparato il caffè quando me lo chiedevano perché io sì che lo sapevo fare buono. Ogni tanto facevano la prova del fucile, ridendo: puntavano, e facevano partire un colpo a vuoto.

No, noi prigionieri non abbiamo mai discusso fra di noi. Se non quando c’erano da scrivere i comunicati, forse: alcuni invocavano le preghiere del Papa, altri, io fra questi, pensavo che solo un riscatto ci avrebbe salvati. Bisognava chiedere soldi, al Papa, non il Padre Nostro. Ma alla fine i sacchi di soldi dal cielo sono caduti. Chi li abbia pagati non mi interessa, le assicurazioni credo, forse il governo in parte, loro lo sanno. Io, per me, ho fatto domanda di essere considerato vittima di terrorismo ma dallo Stato non ho mai avuto risposta in dieci anni. Per quei 317 giorni in mano ai pirati non ho avuto nessun risarcimento: mi hanno semplicemente pagato lo stipendio mensile come se fosse stato un anno qualsiasi, un lavoro qualunque.
Abbiamo disegnato il tempo come un gioco dell’oca, sulla carta, una casella al giorno per segnare e ricordarci i giorni: questo ho portato a casa. Un taccuino, dei disegni. E la vita, certo. La vita.

Due settimane dopo essere rientrato a Procida ho conosciuto quella che sarebbe diventata mia moglie. Ci siamo sposati, abbiamo avuto due figlie che sono la vita mia, e su una nave non sono salito più. Adesso mi occupo di antipirateria, da terra.
Mi resta il rammarico che non abbiano preso nessuno, che non ci siano colpevoli. Uno, ne hanno arrestato, ma poi lo hanno rilasciato perché allora era minorenne, hanno detto. Io non ci credo, non è vero. Comunque. È di quello che mia figlia ha visto la foto, è così che sa che non avevano la benda, i pirati. Perché anche mia figlia, come me, si fida solo di quello che vede. È vero Zahira?

Zahira salta giù dalla sedia, si aggiusta il cerchietto da unicorno, fa sì con la testa. Poi viene vicino e mi dice: – C’è un’altra domanda, signora, che dovrebbe fare a mio padre.
– Dimmi.
– Gli deve chiedere se è vero che non tiene nessun’altra fidanzata oltre a mamma.
– Certo. Glielo chiedo subito. Ecco gliel’ho chiesto. Ha detto di no.
– Ma né a Procida né a Napoli? Ha domandato se non la tiene neppure a Napoli, chiede la bimba col vestito da principessa.Neppure a Napoli. Da nessuna parte.
– Io a lei ci credo, signora, ma mio padre è un bravissimo marinaio e i marinai dicono le bugie. Alle ragazze, dicono bugie. Lo sa che non bisogna fidarsi?

Non lo so, Zahira. Non ti so rispondere. Però ho chiesto a una signora che abita qui vicino, si chiama Libera, ha quasi ottant’anni e ora è là che cuce i vestiti per le prime comunioni perché è una sarta bravissima, pensa che ha cominciato a quindici. È stato allora che ha conosciuto suo marito, era un marittimo. Lei mi ha detto che bisogna fidarsi, invece. Perché fare la moglie di un marinaio è un mestiere, mi ha spiegato. Forse anche fare la figlia, come te, e fare la madre. È un lavoro. Ci vuole pazienza, rispetto, coraggio — ma è anche bellissimo, ha sussurrato quando parlava del desiderio e dell’attesa. E poco a poco, mi ha assicurato Libera: poco a poco si impara.


Sequestrato. Crescenzo Guardascione con dietro la sua foto nell’ultimo giorno di prigionia.
Sotto: la petroliera Savina Caylyn (le foto sono le stesse che illustrano l’articolo su la Repubblica)

 

La rassegna Procida racconta
Concita De Gregorio
è una dei “sei autori in cerca di personaggio” protagonisti della sesta edizione di “Procida racconta” La storia inedita che pubblichiamo — e che Concita De Gregorio ha raccolto e letto ieri sera al festival — è quella dell’ufficiale di marina Crescenzo Guardascione, con lei sul palco.
Il festival letterario, nato da un’idea di Chiara Gamberale e Nutrimenti, si conclude oggi


L’articolo su la Repubblica del 12 giugno 2022. pp. 38-39.pdf

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