Usi e Costumi

Parliamo di noi

di Francesco De Luca

Nei piccoli borghi e nelle piccole isole la gente è divisa grossolanamente fra chi ha studiato e chi si è cimentato in fretta, e quasi totalmente, col lavoro.
Questa premessa mi serve per dire, sbrigativamente che l’argomento che tratterò, si discosta per contenuto da quelli giudicati, in modo qualunquistico, come ‘intellettuali’.

E’ un pregiudizio che accompagna questo Sito fin dalla nascita. Lo si giudica ‘roba da intellettuali’, e perciò lontana dalla gente comune.
Un po’ è così, lo confesso, talvolta avviene questo, e comunque, per giungere a tale giudizio, occorre entrare nelle stanze del Sito.

So di cosa sto parlando perché è da quando si era studenti che l’etichetta (negativa) di “intellettuale” ci veniva rinfacciata dal complesso dei concittadini che ci guardava con ammirazione e sospetto, con rancore e speranza.

Fra i ponzesi l’ignoranza di ciò che si apprende dai libri, di ciò che serve nelle pratiche amministrative, nei litigi giuridici, di ciò che fa capire il legame che si annoda con Dio attraverso la preghiera, è sempre stata tanta. Ricordo certe riunioni fra i tesserati di ‘caccia e pesca’, dove le previsioni erano certezze, i numeri erano espressioni verbali, e l’intera conversazione, con allegria e cordialità, sfumava in una bestemmia o in una allusione di bassa lega.

Noi no, noi studenti ci si teneva lontani da quelle cricche, goderecce sì, ma insulse. Noi volevamo impegnarci nei problemi che il dopoguerra imponeva.
Lo facevamo con l’avallo dei nostri padri, che vedevano in noi un riscatto.

Ponza è sempre stata comandata da forestieri inviati dallo Stato con l’autorità per gestire la comunità degli isolani, laboriosi sì, ma in stizza fra di loro, proni all’ordine costituito e subdolamente attratti dal proprio tornaconto e scalpitanti alle regole.
Le nostre famiglie, nell’atmosfera dominante della democrazia, pensavano di assicurarci con lo studio un futuro meno precario del loro, e miravano ad una comunità isolana meno supina, più indipendente.
Tutto questo però ci faceva apparire ai nostri compaesani come ‘diversi’. Noi studenti eravamo simpaticamente lontani dalla comunità giovanile stanziale.

Dopo cinquant’anni il clima cittadino è cambiato. Non completamente. La cultura è più diffusa, l’indipendenza (economica e sociale) è evidente, consolidata, ma non stabile. La cultura ha conflitto con l’ignoranza ma non l’ha sconfitta.
I giovani si laureano ma preferiscono impegnarsi nel settore economico piuttosto che in quello sociale.
I centri decisionali statali (locali) non brillano per essere incarnati nella realtà comunitaria.

Tutta la dimensione culturale (quella popolare, vernacolare, letteraria, storica, pittorica, teatrale, musicale) non ha agganci con le autorità locali. Quanto viene realizzato con l’aggettivazione ‘culturale’ risulta improvvisata, precaria, saltuaria perché la cultura non trova ricetto. Su di essa è preponderante la dimensione economica che, invece, scalpita e vorrebbe debordare, spaziare, impossessarsi di tutto.

A voler estremizzare il discorso direi che ci si allontana dall’ignoranza per migliorare lo stato del proprio benessere economico. Dimenticando, o tralasciando, che lo stato economico si supporta su quello sociale, e questo su quello relazionale, esistenziale, ambientale. E soprattutto, che il benessere non può prescindere dalla dimensione sociale né da quella ambientale.

E’ tale e tanta questa evidente dimenticanza che si consuma il proprio livello di benessere economico fuori dall’isola. Decretandone la morte per insostenibilità ambientale.

Questa introduzione – che mi ha preso la mano, lo confessoc-, mira soltanto a porre le basi di un rapporto. Con questo titolo (Parliamo di noi) infatti presenterò quadretti di situazioni, di rapporti, persone e personaggi, tutti relativi alla nostra realtà isolana.

Quando parte

Quando parte Tina, la figlia, il padre e la mamma pur incrociandosi con gli occhi e nei movimenti, non si guardano, preferiscono deviare gli sguardi. Come a non mostrare l’uno all’altra la propria sofferenza. Vogliono non commuoversi e induriscono i sentimenti.
Ogni volta così, ogni partenza è l’aprirsi della stessa ferita. Perché? Eppure sono anni che Tina li lascia per il disbrigo dei suoi impegni di vita.

Cominciò allorché si allontanò dall’isola per frequentare l’Università. Trovarono una sistemazione ottima, presso conoscenti. Quella soluzione diede loro sicurezza, e pure a lei.
A vent’anni li lasciò e andò a Napoli, non tanto lontano. Eppure vederla dal balcone, incamminarsi verso il porto ingolfava loro l’animo. Tina, la piccola di casa, uno scricciolo di ragazza, con lo zaino a tracollo e il trolley al seguito. Un colpo al cuore che si stringeva al punto che gli occhi si inumidivano.
Ogni volta, come ora. Lascia casa per recarsi sul luogo del lavoro e il padre si commuove. Perché?
Eppure tutti i motivi dei suoi comportamenti gli sono chiari e li condivide e… allora… perché?

Perché il sentimento non si confonde con la ragione. La rispetta ma non la segue. Il sentimento è, forse, l’ultimo traguardo della nostra dimensione umana. Dopo aver raggiunto la lucidità delle relazioni logiche, la mente umana s’è trovata conchiusa in una rete di complicità, di trasporti, di legami, che sono residui di istinti, di vicinanze circostanziali, di esperienze cementate. I sentimenti.

I sentimenti operano nella dimensione reale e lasciano impronte nella memoria.

Il padre di Tina, pure lui ha lasciato l’isola a sette anni per andare in collegio.
Non era felice di allontanarsi da casa, di andare lontano dai genitori. Che vedeva accorati intorno a lui che partiva per seguire una strada che avrebbe migliorato il suo futuro.
I genitori ne erano consapevoli, lui avvertiva soltanto che accettavano un dolore per il suo bene.
Non ha mai visto i suoi genitori piangere. Erano sicuri di operare bene e sopportavano i disagi della loro scelta.
E così Tina parte. Li saluta, prende la nave e si allontana.
La sua partenza non è paragonabile a quella del padre eppure… l’esito è lo stesso. Stessa palpitazione, stessa commozione.

I nostri tempi sembrano essere scolpiti nella roccia della scienza. Che tutto sa e, se non sa, ricerca per sapere, per togliere il velo dell’oscurità ignorante, sì che la vita possa dispiegarsi lineare, conseguenziale, sicura del suo percorso e della sua consapevolezza.

I sentimenti sono crepe dell’animo, sono cedimenti, da cui allontanarsi. Così lo scientismo sentenzia ma… è bene tenersene lontani, anzi biasimarlo. Senza la capacità di sentire trasporto ci si spoglia di umanità.

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