Scrittori

Lo scrittore va alla guerra

proposto da Sandro Russo

Lamentavamo proprio qualche giorno fa che sia la guerra che la reazione ad essa si stanno affrontando con logica puramente militare (leggi qui, in Commenti). All’aggressione in armi corrispondono aiuti in armi. Sempre più armi, che faranno sempre più morti. Non un guizzo di fantasia per uscire da questa spirale: la creatività positiva dell’umanità sembra paralizzarsi tra incredulità e orrore; è già successo (ed è stato descritto), tra i deportati della Shoah.
Alla ricerca di una voce – stavolta sì, fuori del coro – ho selezionato e propongo questo articolo, di Fernando Gentilini (1), da la Repubblica di oggi 1° marzo 2022, che racconta di Tolstoj alla guerra di Crimea (1855) e delle cose che lì aveva pensato…

La battaglia per il bastione di Malachov dell’8 settembre 1855, fase finale dell’assedio
di Sebastopoli e del conflitto
(di Adolphe Yvon, tra il 1856 e il 1859) – Collezione del Castello di Versailles

La lezione di Tolstoj in cerca della verità
di Fernando Gentilini

Quando lo scrittore si arruolò per raccontare la guerra
I reportage del romanziere da Sebastopoli conquistarono il pubblico proprio perché autentici

Mi consolo a immaginare che tra i soldati russi che in questi giorni hanno invaso l’Ucraina, vi sia un ventisettenne in cerca di verità com’era Tolstoj nel 1855, quando combatteva nella guerra di Crimea, pochi chilometri più a sud dell’attuale linea del fuoco. I suoi reportage da Sebastopoli conquistarono immediatamente il grande pubblico russo, perché erano veri. Nel senso che la guerra la raccontavano come Omero, attraverso l’amore, il dolore, la sofferenza, il sangue, la vanità e i cadaveri senza gloria. In un tempo in cui gli altri scrivevano di eroi, stendardi, patrie e sciabole luccicanti, tutte cose fatte apposta per auto-ingannarsi e ingannare.

Anche a questo punto della “guerra di Putin”, spartiacque tra l’Europa di oggi e quella di domani come la guerra di Crimea combattuta dall’alfiere Tolstoj, si sente forte il bisogno di verità. Già a Sebastopoli (2) non era semplice metterne in luce le mille sfaccettature, perché da un lato c’era l’impero dello zar che non voleva rinunciare al Mediterraneo, e dall’altro una coalizione francese, inglese, ottomana e piemontese tenuta insieme da un groviglio inestricabile di ragioni.
Ma in questa battaglia di Kiev è anche più complicato, dato che la logica dell’aggressione russa resta per molti versi imperscrutabile. Di sicuro c’è che con essa è ritornata la morte in Europa.
E che le argomentazioni con cui Putin ha tentato di giustificare l’attacco, sono basate sulla manipolazione della verità e sulla menzogna.
Prendiamo la sua ricostruzione “storica” di qualche giorno fa, che poi si è rivelata una dichiarazione di guerra.

Ci sono almeno tre cose che il nostro ipotetico soldato russo in cerca di verità dovrebbe sapere al riguardo: anzitutto che il paese in cui sta combattendo è indipendente dalla dissoluzione dell’Urss del 1991, per decisione dei suoi abitanti, inclusi quelli del Donbass e della Crimea; che fino ad allora, salvo il periodo 1917-1920, l’Ucraina era stata parte di un’entità politica governata da Mosca, e questo da quando nel 1654 il cosacco Bohdan Khmelnytsky l’aveva offerta allo zar; e che prima di quel momento fatidico, fin dalla sua formazione, l’Ucraina aveva fatto parte del commonwealth polacco-lituano, nemico giurato della Russia zarista.

Nelle parole di Putin dell’altro giorno non c’è traccia di tutto questo. Ci ha raccontato che l’Ucraina non è mai esistita, e che quella moderna sarebbe una creatura di Lenin e dei bolscevichi, ma senza entrare nel merito dei fatti. Altrimenti avrebbe dovuto spiegarne l’indipendenza nei primi anni della rivoluzione, segnati dallo scontro tra anticomunisti “bianchi” e bolscevichi “rossi”.
Che poi era la conseguenza logica di quel che l’Ucraina era sempre stata nei secoli precedenti: una “Piccola Russia” distinta da quella più grande. Che come scriveva Gogol’ nelle sue opere giovanili, venne forgiata da un miscuglio di popoli e dai cosacchi del Dnepr, che la dotarono di una propria lingua, una religione, una propria cultura e una propria musica popolare.

Se poi il nostro ipotetico soldato russo diretto a Kiev fosse veramente affamato di verità come lo era Tolstoj, invece che alla mitologia edulcorata di Putin, dovrebbe dedicarsi ai miti fondativi della sua gente, a partire da quello della “Russia di Kiev” antesignana della Russia moderna. Scoprirebbe che è più complesso di quel che sembra, nel senso che come ogni mito che si rispetti presta il fianco a un’infinità di interpretazioni.
Naturalmente è a Kiev, e lungo il Dnepr, che si è compiuto il destino di tutte le Russie. Non vi è alcun dubbio al riguardo. Ma questo accadeva prima dell’anno Mille, al tempo della conversione di Vladimir il Santo, quando Mosca non era ancora Mosca, non era ancora la Terza Roma, quando il potere diabolico e celeste degli zar non abitava ancora tra gli uomini.
E dunque il principato di Kiev precede nel tempo quello di Moscovia, con buona pace di Putin a cui piace riscrivere la storia. E perciò non è vero come ci ha detto l’altra sera che nel 1991 l’Ucraina è diventata sovrana out of the blue, per colpa di Lenin e del suo approccio confederale. La questione ucraina, sia Lenin che Stalin, se l’erano ritrovata in eredità. E non potendola risolvere a modo loro, perché con le identità nazionali c’era poco da fare come si era capito nell’Ottocento, se la trascinarono dietro né più e né meno come avevano fatto gli zar.
E così l’Ucraina è diventata indipendente e sovrana grazie alla storia, alla geografia e alla fede del suo popolo, e non per il capriccio di un uomo o di un pugno di uomini.

Ora lo sanno tutti che una volta scoperta la verità non si può continuare come prima. Proprio come quando scoppia improvvisamente una guerra che ci riguarda, e ci si rende conto di non poter più vivere facendo finta di nulla.
L’alfiere Tolstoj ad esempio, scoperta la verità sulla guerra, cioè l’insensatezza di Sebastopoli, annotò sul diario che avrebbe presto lasciato l’esercito per diventare scrittore. Ecco, forse mentre si combatte la battaglia di Kiev dovremmo annotare tutti qualcosa di importante sui nostri diari, se non altro per il fatto che scrivere, in momenti come questi, schiarisce le idee. E chissà che una volta smascherate le bugie di Putin, e prima di macchiarsi di troppi orrori, non faccia la stessa cosa anche il nostro ipotetico soldato russo in cerca di verità, magari lasciandosi guidare dal soldato-scrittore di Sebastopoli.

Nel maggio del 1855, mentre «migliaia di bombe, palle e pallottole continuano a volare dai bastioni alla trincee e dalle trincee sui bastioni», Tolstoj inizia a fantasticare di uno strano piano di pace. Si sarebbe dovuto cominciare mandando a casa un soldato per ognuno degli schieramenti, e poi un secondo, e poi un terzo, e un quarto… Fino a che sul campo di battaglia non fosse rimasto un soldato per parte, in modo da poter risolvere la guerra con un duello. «Questo ragionamento può sembrare un paradosso ma è corretto» – annota.
Perché, dove sta scritto che bisogna per forza essere centomila contro centomila e non ottantamila contro ottantamila, o ventimila contro ventimila, o venti contro venti o uno contro uno?
«Nessuna di queste cose è più logica delle altre. L’ultima, viceversa, è assai più logica, perché è più umana» – assicura Tolstoj. Tanto «la questione che i diplomatici non hanno risolta, non viene risolta neppure dalla polvere da sparo e dal sangue».
E questa è la verità di Sebastopoli, di Kiev, e di tutte le guerre che ancora ci ostineremo a combattere.

[Da la Repubblica 01 marzo 2022, pag. 21]

Lev Tolstoj. I racconti di Sebastopoli, pubbl. 1855-56; (Garzanti 2004)

Note

(1) – Fernando Gentilini (Subiaco, 1962) è in diplomatico italiano. Laureato il Legge all’Università di Roma nel 1986.
Diplomatico di carriera, ha un’esperienza ventennale in gestione di crisi internazionali, affari europei e multilaterali. È stato anche direttore del Servizio diplomatico europeo per i Balcani occidentali e la Turchia, Rappresentante speciale dell’Ue in Kosovo e inviato della Nato in Afghanistan. Dal 2018, è direttore generale per il Medio Oriente e il Nord Africa del Servizio diplomatico europeo di Bruxelles. Ha pubblicato: In Etiopia (1999), Infiniti Balcani (2007, vincitore del premio Cesare Pavese e del premio Capalbio) e Libero a Kabul (2011). Collabora con le pagine culturali de “La Stampa”.
Il suo libro più recente, si intitola “Tre volte a Gerusalemme” (La Nave di Teseo, 2020).

(2)Dopo vani tentativi dei russi di rompere l’assedio (battaglie di Balaklava, di Inkerman, della Cernaia) e l’attacco finale degli alleati, Sebastopoli fu abbandonata dai difensori il 9 settembre 1855, portando alla sconfitta della Russia (fonte: Wikipedia).

1 Comment

1 Comment

  1. Luigi Narducci

    2 Marzo 2022 at 23:10

    Deve cambiare il paradigma! La sinistra oggi è dove sono i pacifisti.
    Serve un popolo della pace che dica no al delirio della volontà di potenza. Serve far tacere le armi, non incrementarne il numero. Servono convogli umanitari della Croce Rossa
    Occorre una seria iniziativa diplomatica che affermi l’impegno dell’alleanza atlantica a rinunciare ad espansioni ad est della Nato riconoscendo la neutralità dell’Ucraina
    Occorre prendere atto che la logica dell’unipolarismo, illusione americana alla fine dell’URSS, è fallita e che viviamo in un mondo multipolare
    E’ necessario cominciare a parlare seriamente del rifiuto della guerra, dello scioglimento degli eserciti nazionali, della messa al bando delle armi e del monopolio sovranazionale della forza e di un nuovo modello di sviluppo che parta dalle esigenze degli oppressi e dei migranti, per la difesa dei diritti umani e la tutela dei beni ambientali.
    Oggi abbiamo bisogno di un immenso movimento per la pace.

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