Racconti

Lo starnuto avveduto

di Francesco De Luca

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 “Cosa mi devo prendere per questo dannato raffreddore?” – e starnutisce, intasato nel naso e arrochito nella voce. “Prenditi un’ aspirina” – risponde la moglie. A lei è da poco passato il mal di stagione, trasferendosi all’uomo. Le è rimasto soltanto il fastidio della tosse.
“Eetcì… – rumoreggia l’uomo –  e sono quattro con questo, e si ripetono non appena avverto il variare della temperatura”. Intanto versa nel bicchiere l’acqua e vi depone una, no… due aspirine effervescenti.
Non è il freddo quest’anno, la causa dell’epidemia è… è l’aria infetta dell’inverno. Si è all’apice delle infezioni. L’Italia non è sotto la morsa del gelo, come blatera il telegiornale, bensì sotto quella della malattia. Ad alcuni si associa il mal di pancia, ad altri porta la cefalea e ad altri la febbre alta. “Noi poi, a Ponza siamo immersi nell’umidità” –  lamenta l’uomo, bisticciando col fazzoletto di carta, già umido e praticamente inservibile.

È una scena che si ripete da anni e che lo riporta indietro nel tempo. Il contrasto fra lui e il raffreddore. Lo irritava da ragazzo dover sottostare alle condizioni che la malattia imponeva. In fondo lui non affrontava nessun rigore invernale. La sua giornata non si svolgeva all’aria aperta, non doveva sopportare fatiche e il corpo lo teneva sempre protetto. Per questo si riteneva esonerato dagli obblighi che il morbo cercava di imporgli pretendendo che si infagottasse e  che si riposasse al caldo.
“Eetcì… etcì…” – e la mamma decide che quella mattina non  sarebbe andato a scuola. Nessuno lo avrebbe disturbato, e lui sotto le coperte  a figurarsi quanto sta avvenendo in classe. L’amico di banco, Umberto, chiede spiegazioni ad Antonio, il vicino di casa. “ Silverio oggi non viene perché ha il raffreddore…”. E ripeterà la stessa frase al maestro Tagliamonte.

La mamma però, stamane più amorevole, gli si avvicina. Il termometro segna quasi 38. Il calduccio è invitante, e quell’andare della mente in ogni direzione, in cerca di un luogo, di un fatto, di un volto che possa dargli piacere, è un dolce passatempo.
Il riposo obbligatorio è un toccasana. Anche per lo spirito. Ma fino ad un certo punto del mattino, perché dopo si fa smanioso di alzarsi. Sazio delle guerre coi soldatini, nascosti fra le pieghe della coperta divenuta campo da guerra con montagne, voragini, insidiose per i  deboli, esaltanti per i temerari.
Nell’attuale frangente epocale l’influenza è vissuta come una innaturalità. Non è presente nello standard della vita, tutta azione, determinazione, potenza. Chiedere all’organismo di fermarsi quel tanto per riprendere coscienza del proprio stato è come minarne la forza. Che sta nell’aggressione, nell’imposizione, non nella attenzione al proprio intimo.
“Etcì…” – lo starnuto avverte che la temperatura  interna registra una anomalia. Le aspirine sono insufficienti. “Ti faccio un the caldo” – interviene la moglie.
La stessa premura della madre, e il suono della campana del mezzodì filtra  assottigliato dal freddo che avvolge l’isola, ancora più sola nel grigiore del cielo.

In fanciullezza si viveva l’inverno nel torpore. Gli spazi da vivere erano racchiusi dalle mura della casa, della sagrestia, della scuola, dei luoghi, dove ci si incontrava coi compagni, e i più grandi osavano tirare boccate di fumo dai rotoli fatti con la carta gialla della pasta, infarcita con quell’erba secca e sfarinosa che solo gli smaliziati conoscevano e usavano.
Nei pomeriggi striminziti di sole, dopo i compiti, un salto sulle grotte di monte  Mangiaracina ”. Francuccio, Umberto, Antonio già stavano lì a giocare con le monetine a tics tocs funtanella. Certo… loro non facevano mai i compiti !
Al rintocco della campana Silverio andava in chiesa perché chierichetto. Accendere le candele, preparare i paramenti per il parroco, i grani dell’incenso nel turibolo pronto. C’erano le donne che sistemavano il tutto ma lui era attento e presente, facendosene quasi un obbligo.
Al termine della funzione religiosa ci si fermava nella sala parrocchiale a vedere la televisione. ’U maesto Giannino, ’u Cancelliere, facevano da controllori.
Poi a casa. Attorno al braciere con la zia che intratteneva con i racconti. U munaciello  non mancava mai di incuriosire prima, e poi di insinuare il sospetto che la sua imprevedibilità potesse palesarsi nella notte incombente.
Senza la televisione le notti erano fredde e buie. Oggi sono piatte. Calde e confortevoli ma piatte, senza stupore.
L’agiatezza oggi sembra che non lasci spazio alla fanciullezza di scompaginare i programmi prestabiliti dai genitori per i pomeriggi. La tecnologia ha messo all’angolo l’improvvisazione, a discapito dell’esuberanza
Era lei, l’esuberanza, quella che temeva la mamma, e ad essa attribuiva ogni colpa. “Ieri hai preso freddo sulla piazzetta della chiesa… Ti sei messo a giocare a pallone…”.
Non immagina, la mamma, che ieri Francuccio e Silverio hanno scoperto una grotticina piena di carùle (vermetti giallastri ). La visiteranno fra qualche mese quando, per la venuta degli uccelli, metteranno le trappole e bisognerà innescarle con i vermetti, ed essi già sanno dove prenderli.
“Eetcì… etcì…” – “Ho capito  –  disse la mamma seria  – domani faccio venire il medico”.

L’indomani il dottore Martinelli, verso le nove, era a casa. Con la borsetta, dalla quale tirò fuori un affare freddo e lo poggiò sulle spalle di Silverio. “Di’ trentatrè… Più forte… trentatrè…”.

Finita la visita si mise a parlare con il padre. Di cosa se non di politica? Martinelli era il segretario della DC ponzese ma c’era Sandolo che ne stava insidiando l’egemonia. Martinelli era perdente perché non rappresentava nessun settore sociale mentre Sandolo si ergeva a paladino degli abitanti di Le Forna.

Poi… era già tutto pronto: la bacinella sul comodino, l’asciugamani pulito, la saponetta intonsa. Il medico espletò la funzione del lavabo delle mani e: “’Stu  uaglione nun tène niente. Domani a scuola, mi raccomando”. Così sentenziò ed uscì.
Il padre lo seguì, la madre pure, la porta fu lasciata aperta, e il vento si intrufolò nelle stanze.
“Eetcì… etcì… etcì”.
Il ragazzo, scocciato, sfilò due fazzoletti, si soffiò il naso e accostò il capo al cuscino dietro la nuca. Decise di arrendersi al morbo. Doveva fare il corso suo. Doveva lasciare agli starnuti il loro sfogo. Non è tanto male, poi, galleggiare con la fantasia.

La fantasia porta lontano. L’uomo depone ogni velleità e, come da ragazzo, lascia che la mente sorvoli ad ali spiegate sulla realtà che gli scorre fra le mani.

L’isola non riesce a far crescere una classe dirigente consona al suo stato. Da un’analisi disincarnata dal quotidiano appare evidente che la comunità non abbia maturato una sua identità sociale. I corpi sociali (donne di casa, professionisti, studenti, pescatori, imprenditori) mirano a consolidare il loro stato socio-economico in modo individualistico, a prescindere dal sentirsi coesi col territorio (socio-ambientale) isolano, l’unica, vera, miracolosa risorsa, appetita dal turismo.
Manca una visione d’insieme che renda evidente a tutti la responsabilità propria che si ha nei confronti del bene comune. E dunque l’isola e la sua comunità mancano di una visione politica.

Da un’analisi disincarnata dal quotidiano ciò appare evidente. Anche se è una evidenza sterile, perché essa dovrebbe diventare programma, ossia individuare i soggetti, le risorse (umane e no), le procedure per fecondare la realtà. Questo ulteriore passaggio non si compie perché si pensa, nell’ignoranza, che se ne possa fare a meno.
Si presume che la politica sia astuzia, sia gioco, sia improvvisazione, sia ricatto. Cosicché abbiamo conosciuto amministratori furbi come volpi, amministratori giocolieri incalliti, amministratori dalla fervida improvvisazione, e amministratori che dal ricatto desideravano consenso.
La fantasia… come è evocatrice, e insieme vera, e anche provocatoria!

 

Lo starnuto in dieci lingue

Immagine di copertina: Il graffito di Banksy in era Covid (occhio alla dentiera!)

 

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