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Le Quattro Giornate di Napoli, come non le avete mai sentite raccontare (2)

proposto da Sandro Russo

 .

Questo il seguito dell’episodio del soldato tedesco, durante le Quattro giornate di Napoli,
da Horcynus Orca (per la prima parte leggi qui)

Le sigarette, le fece un borghese di una quarantina d’anni che aveva gli occhi poco cigliosi, arrossati e portava gli occhiali con un pezzo di filodiferro al posto di una delle stanghette; era vestito a lutto stretto, con una barba fittafitta e infilato al braccio portava anche lui un tascappane per metà pieno di bombe a mano. Questo napoletano, a un certo punto, aveva pigliato da una tasca un pezzetto di cartavelina e cercandosi nelle tasche dei pantaloni e della giacca, pizzico su pizzico, l’aveva riempita di tabacco, l’aveva arrotolata e poi aveva acceso la sigaretta, tirando qualche boccata, e passandola infine al suo vicino perché la facesse girare. Aveva pigliato poi un’altra cartina, e cercandosi ancora nelle tasche, aveva arrotolato un’altra sigaretta, l’aveva accesa e passata all’altro suo vicino nell’altro verso del cerchio.
Gli scugnizzi pigliavano la sigaretta dal vicino, tiravano la loro boccata, passavano la sigaretta, continuando però anche nel fumo a guardare fittofitto il tedesco, seguendo le mosse che faceva o che pensava di fare, mosse che poi erano sempre una, sempre quella, che lui fra l’altro ripeteva, ogni volta, precisa identica a ogni altra volta come un manichino caricato a corda, con quel sorriso fisso, finto, attigrato, che si muoveva intorno e ogni tanto si fermava davanti a qualcuno degli scugnizzi e ritentava quella mossa di dare la mano e dava invece il suo ricordo incarnato della pistola con la pallottola in canna che aveva impugnato.
Il tedesco non tenne sempre, sino alla fine, lo sguardo rivolto ai suoi accerchiatori, due volte levò gli occhi da loro per guardare da un’altra parte.
La prima volta fu come se un uccello fischiasse sulla loro testa e lui solo lo sentisse, sicché alzava gli occhi come lo cercasse, girando su se stesso col braccio sempre allungato che girava insieme al busto come fosse di legno. Ma quando fu tutto girato da mare a monte, e si trovò con lo sguardo in linea diretta col castello che si vedeva lassòpra sul contrafforte di un’altura della città, sembrò che avesse seguito fino a lassòpra l’invisibile uccello, fino a quello che visto da labbàsso, sembrava il castello delle fate, ed era invece una fortezza militare e si chiamava Castel Sant’Elmo. Fu cosa di secondi, una sfumatura, nient’altro che una girata d’occhi, ma là nel cerchio, ci giurava, non era stato il solo, lui, a vederci qualcosa di strano, come un segno di defaglianza del tedesco, un segno che l’idea della morte vicina ormai lo travagliava, andava ormai capacitandolo: perché, se cominciavano ad arrivargli all’orecchio fischi d’uccelli e cominciava ad alzare gli occhi al cielo, se insomma un barbaro individuo come quello se n’usciva in poesia, questo doveva significare che per quanto d’acciaio, volere o non volere, il tedesco s’andava sconsentendo dentro, doveva significare che sentiva farsi scuro in cuore. Certo, poteva darsi benissimo che c’entrasse pure qualche ferita in quella girata d’occhi, qualche ferita invisibile che ora non gli sanguinava più, ma questo non voleva dire che gli andasse in miglioria, invece che in peggioria.
La seconda volta che il tedesco levò gli occhi dagli scugnizzi, fu per guardare avanti, verso il molo, sopra le teste dei suoi accerchiatori, come se in quel momento scoprisse che per una visuale che c’era fra i montarozzi di macerie, anche se strettastretta e a zigzag, si riusciva a vedere uno spicchio di mare. Ma il tedesco, quasi senza fermarsi, passò oltre con lo sguardo, ed era difficile dire se aveva fatto in tempo a vedere le due persone che erano comparse là sul molo, una signorinella che poteva avere dodici come sedici anni, con una gonna fatta da una coperta militare, una blusa a fiori verdoni e le scarpe col sughero, e un uomo alto, secco, il collo piegato come un punto interrogativo: la signorinella gli dava la mano e non ci voleva molto a capire che l’uomo era cieco e doveva essere il padre, come si seppe di lì a poco.
La figlia portò il padre in pizzo alla banchina e lo aiutò a mettersi seduto con le gambe di fuori, il padre tirò fuori dalla tasca una lenza e la figlia gliela pigliò dalle mani, staccò l’amo dal sughero e lo ignescò con uno dei vermi che stavano in una boatta, che il padre tirò fuori dall’altra tasca della sahariana che portava per giacca. La figlia fece poi dondolare un poco la cima col piombino per fargli pigliare slancio, la lanciò a mare, una diecina di metri distante dal molo; a questo punto, passò la lenza al padre, scambiando con lui qualche parola: il padre si mise a sprovare la lenza con l’indice e lei si girò all’indietro dando un’occhiata al paesaggio di macerie che stava alle loro spalle. Quando vide quella specie di monumento, come di statue viventi che laddèntro, fra i montarozzi di macerie, facevano circolo intorno a qualcosa o a qualcuno, aprì la bocca come per gridare, e contempo sí spostò un poco di lato come per vederne dí più e poi parlò a suo padre: questo qui, allora, le passò il capo della lenza e lei lo assicurò a una pietra, aiutò il padre a rialzarsi, lo pigliò per mano e si diressero fra le macerie.
Il rumore che faceva il cieco camminando fra le pietre e i calcinacci, manmano che padre e figlia s’avvicinavano, invece di aumentare, diminuiva, e quando arrivarono alle spalle degli scugnizzi, si sentivano solo i passi della figlia. Gli unici che girarono la testa a guardarli furono lui, ’Ndrja, e gli altri quattro o cinque ex di questo o di quello, della fu regia Marina o del fu Esercito, che lì facevano da contorno, perché per quanto riguardava gli scugnizzi, per loro fu come non fosse arrivato nessuno.

La signorinella, quando vide il carrarmato, il tedesco col suo sorriso di gelo, la sua scellerata mano, tesa impistolata, e gli scugnizzi armati che non gli levavano gli occhi di sopra nemmeno il tempo di fargli pigliare una pulce, ebbe subito chiaro il quadro: tirando allora per la mano e facendo abbassare suo padre gli parlò all’orecchio, e in due parole lo mise a parte di quello che stava succedendo. Quando rialzò la faccitta di oparella, faccitta di chi, l’animo sempre allarmato, nell’animo suo sempre scappa, la signorinella trovò il tedesco, che detto fra parentesi, doveva averne di barbaro coraggio, il quale le teneva gli occhi puntati negli occhi e piegava un poco la testa di lato, come cercasse un punto di vista da dove poteva apprezzare quanto si meritava, e intanto, con quel suo sorriso ormai stantivo e il braccio allungato in avanti, sembrava le dicesse: ci stringiamo la mano, signorina? facciamo conoscenza?

La signorinella allora, rivolgendosi al padre, ma continuando a guardare il tedesco, perché in faccia a lui andava a gettare le sue parole, ad alta voce disse: si tu ‘o vedessi, pa’, comm’è bello ‘o fetente…
Qui, il padre, fu lui a pigliare per mano la figlia. Tornarono al molo, la figlia ritirò la lenza e trovò che aveva abboccato un pescicello, forse una viriola, forse una monacella: gridava e rideva col pescicello che si sbatteva appeso al filo e lei cercava di farlo arrivare nelle mani del padre, che finalmente incontrò il filo e pigliando nella sinistra il pescicello, con la destra fece per strappargli l’amo. Giusto in quel momento uscirono dalla visuale dei montarozzi e non si videro più.

Subito, non sembrò nemmeno vero che c’era stato quel diversivo, almeno a giudicare dal tedesco che era tornato a fare il ciarlatano con la faccia di battitore di portone, a offrire al pubblico intorno a lui la sua merce pessima, infame, quella stretta di mano che mai al mondo poteva smerciare, e a giudicare anche dagli scugnizzi, che statue sembravano prima, e statue sembravano ora. C’erano però quelle due parole come d’elogio funebre che quella signorinella dalla faccina d’oparella spagnata, gli aveva indirizzato al fetente per la sua bella faccia, e quelle sembravano vere, quelle restavano, quelle dovevano essere rimaste all’orecchio anche degli scugnizzi fatti a statue e forse, perché no? ebbero il loro peso a fargli levare quella farsa pazza scellerata, facendo finalmente, e definitivamente cadere, anzi precipitare di scena, dalla scenamadre della vita del mondo, quel tedesco che sin troppo del resto ci aveva recitato. Perché, dopo, fu effettivamente come se gli sonassero il miserere al tedesco, dopo fu effettivamente come se gli scugnizzi, tutti o quello solo che compì l’opera, si fossero detti: qua, pare che diventammo tante statue, e intanto che noi facciamo le statue, sta chiavica se n’approfitta per continuare a campare abusivamente sotto i nostri occhi, mentre la morte sua in mente nostra è come l’ebbe già, solo che lui non lo sa ancora, e s’illude, perché da quando l’abbiamo qua e l’accerchiamo, ci guarda, ci guarda come se agli occhi suoi ci facessimo per davvero statue.
E da come lo guardavano, non c’era che dire, quello sembravano, statue: statue in cerchio, e laddèntro, accerchiato, quel pazzo scellerato faceva quella sua barbara pantomima della stretta di mano e ora veniva avanti con la mano tesa verso questa e ora verso quella, e ogni volta pareva illudersi che la statua si animasse, ci provava e poi deviava il braccio, ma subito ci riprovava con la mano sempre tesa e il sorriso che l’accompagnava, smorfia di labbra morte, bianche e lancinanti come la cicatrice d’una ferita. Lo guardavano veramente così: come fossero fatti, loro, d’una materia immortale, della materia indistruttibile delle statue, marmo o bronzo, e lui della comune materia mortale, di carne e d’ossa, della polvere di cui è fatto l’uomo.

Lo guardavano che parevano le statue del loro monumento, il monumento di quello che avevano fatto. E forse, se stava a loro, avrebbero voluto che non finisse mai quel momento monumentale, avrebbero voluto non scendere mai dal piedistallo da dove seguivano gli ultimi movimenti di vita del carrista tedesco. Insomma, si erano come incantesimati e quella signorinella questo fece, entrò ignara nell’incantesimo, disse le parole giuste, quelle forse che andavano dette e l’incantesimo si spezzò. Difatti, dopo, immediatamente dopo, la Morte che sino a quel momento aveva fatto acqua, acqua col tedesco, gli fece fuoco, fuoco, fuocone.

Gliela stava dando lei la stretta di mano per la quale smaniava, ormai non c’era che lei, quella vecchia commare tedesca, che gli potesse dare una stretta di mano, a questo e all’altro mondo non c’era più che lei, la sua principala, la principalona del grande macello tedesco. Lei sola poteva e lei difatti gliela strinse, gliela artigliò, per meglio dire: perché quella, è notorio, fa di tutta l’erba un fascio e se tanto le dà tanto, per lei dev’essere un piacere a doppio gusto se alquandalquando c’incappa pure lui, il tedesco, suo gran travagliatore a cottimo, suo gran giornataro perenne.
Lei era lì, presente: era una di quelle facce in cerchio, facce di scugnizzi e guaglioncelli con gli occhi grandi, chiari, pieni di rughe, occhi di nero velluto di festa o di lutto, le guance e il labbro piumosi della prima peluria. A guardarli, l’uno o l’altro, pareva di vedere sempre la stessa faccia, e quella era la faccia della Morte, ed era come una seconda faccia per gli scugnizzi, come quella che a carnevale si pittano sulla faccia vera col nerofumo, tutta denti, occhiaie e nasomangiato, e se la pittano a memoria come l’avessero sempre conosciuta e vista, Nasomangiato, come sapessero che per camuffare totalmente la vita, non c’è che il suo contrario, la Morte.
A questo punto, il tedesco s’indirizzò con la sua pazza scellerata mano tesa giusto a quello, che se avesse avuto occhio per le facce come sicuramente l’aveva per la mira al mirino, si sarebbe ben guardato persino di guardare: ma a sua unica scusante si poteva dire che quella pantomima la faceva ormai solo a solo con la Morte, ed era a lui, a Nasomangiato in fattezze di scugnizzo, che offriva la sua mano, girando a folle come in un’aria d’agonia. La porgeva quella sua mano lorda, macchiata di sangue, e le sorrideva, alla Morte scugnizza, le sorrideva coi denti tigrati che non avevano più brillio, il loro biancore si era fatto cupo e facevano pensare ai denti d’un animale imbalsamato: sorrideva ed era come avesse cominciato dal sorriso a morire e incarognirsi.
Lo scugnizzo sbatté le palpebre e gli occhi che teneva stretti, affessurati, li spalancò grandi grandi sul tedesco, fece un passo fuori dal cerchio e gli si mise di fronte, là, portò avanti il braccio destro che aveva nudo sino alla spalla, e che apparve allora mutilato della mano, col moncherino fasciato nelle bende ancora inzuppate di sangue. Dette un colpo di spalla e spinse il moncherino contro la mano del tedesco, come gli dicesse: stringi questo. E intanto lo fissava coi suoi grandi occhi neri scrutatori, con espressione intenta, come soprapensiero: si sarebbe detto che lo fissava con gli occhi della testa e contempo con l’occhio della mente e che questo doveva farglielo vedere un poco meno e un poco più reale di quant’era, ora vicino e ora lontano, ora rimpicciolito e ora ingrandito, ora uno, meno di uno, zero tagliato e ora più di uno, un popolo, un esercito di uno…
Il tedesco, se ne fu sbalordito oppure no, se lo sapeva lui ché continuò a sorridere con quella sua smorfia di sorriso scordato sulle labbra: solo che per due o tre volte, e ora non si sapeva se dirlo più pazzo o più scellerato, s’attentò a fare con la mano verso il moncherino dei leggerissimi scatti a invito.
Lo scugnizzo lo fissava sempre intento, corrugato, cogitoso, con le ciglia che intanto gli sbattevano come ali di farfalle ribellate dalla luce. E lo fissava ancora così, intento, corrugato, cogitoso, quando, da dietro il fianco gli compariva fulminea la mano sinistra con una di quelle baionette tedesche, strette e affilate come pugnali, impugnata così fitta, da sembrare che il pugno, come ai paladini dell’Opera, gli facesse da impugnatura, e quasi senza muoversi, un lampo: comparire e colpire, gliela ficcava tutta nella pancia. Per un momento sembrò che lo tenesse lui all’impiedi il tedesco, facendo forza all’impugnatura della baionetta, poi a poco a poco cominciò a mollarlo seguendo bramosamente il suo morire: e manmano che il tedesco se ne calava ai suoi piedi, con quella pazza scellerata mano sempre tesa, quel pazzo scellerato sorriso sempre sulle labbra, a lui, sempre intento, corrugato, cogitoso, si vedevano comparirgli in fronte rughe su rughe, come lo assalisse una grande e precipitosa vecchiaia, perché forse era quello il prezzo che la Morte gli faceva pagare per averlo scelto a farle da braccio.

 

[Da Horcynus Orca. 2. – Fine]

Le pagine dal romanzo in .pdf: Horcynus Orca. L’episodio del tedesco Completo

Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca, Frankfurt, S. Fischer Verlag, 2015. Traduzione di Moshe Kahn.

1 Comment

1 Comment

  1. Gianni Sarro

    7 Febbraio 2022 at 14:11

    Potere del frammento: leggere poche righe di un colosso di 1300 e passa pagine e appassionarsi. Forse perché la fortuna mi fa leggere delle righe che sembrano prese dai racconti che mio padre faceva del periodo di guerra, da lui vissuto in maniera incosciente, avendo meno di dieci anni. Dicevo potere del frammento, eh sì, perché Sandro ci porta al cospetto di questo mostro e lo riduce in pochi prelibati bocconi. Una specie di San Giorgio al cospetto del drago. Di seguito le poche righe che mi hanno affascinato. Buona lettura… frammentata.

    ‘Gli scugnizzi però, sapevano benissimo che nella pancia corazzata dello scarafaggione c’era un tigre e agli agnelluzzi non gli pareva vero di avere una belva ancora viva o almeno più viva che morta, in loro balìa: era un evento raro, se ne rendevano conto, e per questo avevano deciso di onorarlo, per questo avevano pensato, il tigre, di portarlo in un posto che conoscevano loro, scognito, fuorimano, dove se la potevano godere con agio, la belva scambiata di posto con loro, potevano strappargli il cuore al tigre e mangiarselo ancora caldo, fumante di sangue, e poi sbranarlo tutto, pezzettino a pezzettino, dente per dente, senza pericolo di essere assaliti dalle altre belve ancora sciolte’.

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