Ricorrenze

Sopravvivere all’orrore

proposto da Sandro Russo

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Ogni anno ricordiamo con parole e pensieri diversi la Giornata della Memoria (leggi qui e qui).
Leggiamo molto e scriviamo: cerchiamo di non dimenticare e di non far dimenticare.
Quest’anno sono stato attratto da alcune storie, che qui propongo.

Sono incredibili le reazioni dei bambini alle avversità, ai grandi drammi.
Davanti a eventi che sconvolgono la loro vita, che non riescono a comprendere con la loro limitata esperienza, fanno cose che si rimane a pensarci su, tanto si fa fatica a credere.

Da un film di qualche anno fa ricordo ancora una scena. Indimenticabile. Il film è Vai e vivrai, di Radu Mihăileanu (1). È la storia (vera) della cosiddetta Operazione Mosè. L’operazione è avvenuta realmente; il film che ne è stato tratto racconta la vita di uno dei bambini trasferiti dall’Etiopia in Israele.
Africa, 1984. Il Mossad sta organizzando la cosiddetta “Operazione Mosè” che, con la collaborazione della CIA e dell’NSA statunitensi, ha come obiettivo il trasferimento in Israele di un folto gruppo di ebrei etiopi (2), facendoli passare attraverso dei campi profughi in Sudan. In uno di questi campi vive insieme alla madre un bimbo anch’egli etiope, ma di religione cristiana (da Wikipedia).
Un giorno, una madre ebrea perde il figlio ammalato, Schlomo, e la madre del bambino cristiano, che comprende come la possibilità di sopravvivere in quel campo profughi sia quasi nulla per il figlio, lo affida alla donna ebrea, sperando che il “nuovo” Shlomo possa fuggire dal campo fingendosi ebreo.
Dopo il tempo africano, il film racconta la nuova vita e le difficoltà di inserimento del piccolo dalla pelle scura, nella nuova realtà israeliana.
Potente la scena dell’arrivo nella nuova famiglia che lo accoglie. Quando gli fanno la doccia per la prima volta, Shlomo ne è spaventato, poi cerca di trattenere l’acqua che fugge dallo scarico, abituato com’era a ritenerla preziosa.

Andra e Tatiana Bucci, bambine, prima dell’orrore

Tra le cose lette in questi giorni ne propongo appunto un paio che riguardano i bambini:
– Una storia vera, quella delle sorelline Bucci sopravvissute al campo di sterminio di Birkenau – l’intervista di Tonia Mastrobuoni da la Repubblica si può leggere a fondo pagina, in file .pdf.
–  un’altra storia vera, ma proposta in forma di romanzo [anche con un capitolo (oltre alla copertina) dedicato alle sorelle Bucci, quindi l’intervista a loro deve essere letta prima – ndr]: la recensione del libro di Titti Marrone: “Se solo il mio cuore fosse di pietra”, di Sara Scarafia.
Qui ‘in chiaro’ la recensione (poi anche in file.pdf).

CULTURA. La Repubblica del 28 gennaio 2022
Il romanzo di Titti Marrone sui piccoli reduci dai lager

La casa dei bambini che non dimenticano
di Sara Scarafia

C’è un immagine, tra le tante, che a fine lettura si imprime nella mente. È quella di sei bambini, i più piccoli del gruppo: quando potrebbero finalmente dormire su un materasso caldo e morbido, si distendono «uno affiancato all’altro sul duro pavimento, tutti allineati sotto un unico lettino».

Se solo il mio cuore fosse pietra, il romanzo che Titti Marrone ha scritto per Feltrinelli, (240 pagine, 17,50 euro), deve il titolo a La strada di Cormac McCarthy. E in effetti andando in fondo a questo libro, a tratti durissimo ma sempre necessario, sembra di compiere un viaggio che è insieme di morte e di rinascita.
Esce nei Giorni della Memoria ed è la storia di Lingfield, la bella villa inglese di sir Benjamin Drage (3), che diventa una residenza per venticinque bambini reduci dei campi di sterminio. I più piccoli hanno quattro anni, i più grandi quindici e la casa diventa un grembo capace, quasi sempre, di rimettere al mondo.
È una storia vera, con qualche passaggio romanzato utile per prendere per mano il lettore e condurlo in fondo all’abisso.

Marrone comincia da dove aveva finito col saggio Meglio non sapere, pubblicato da Laterza nel 2003 e adesso alla quindicesima ristampa: raccoglie la testimonianza di Tatiana e Andra Bucci su Lingfield e la storia del cugino Sergio De Simone che nella casa grembo, gestita da psicoterapeuti e assistenti sociali, non andrà. È lui, scopriremo alla fine, «Il bambino che non arrivò» che dà il titolo al primo capitolo di Se solo il mio cuore fosse pietra. Appare in sogno ad Alice Goldberger, direttrice della residenza di sir Benjamin, una delle più strette collaboratrici di Anna Freud, la figlia di Sigmund.

Seguiamo Alice fin dall’inizio, mentre gira da una stanza all’altra in attesa del furgone cercando di dominare l’ansia. Alice e le sue collaboratrici sono esperte di traumi ma capiranno, fin dall’arrivo del primo gruppo di piccoli ospiti, che tutto quello che sanno va rimesso in discussione. Perché una mano che tende una mela è una minaccia; così come la luce di una torcia o il latrare di un cane nelle vicinanze. Quando Gadi, il primo a scendere, si trova faccia a faccia con un coetaneo «pettinato, roseo e sorridente », il figlio di una vicina venuto ad accogliere i nuovi arrivati, a entrambi scappa un urlo di terrore per quell’immagine distorta di se stessi che si ritrovano davanti. Quella che doveva essere una festa è un incubo.

La tavola imbandita di cibo che i piccoli dai denti marci non sanno masticare sembra un trucco: «Ci sarà del veleno», avverte Martha, la più grande. Gli accappatoi bianchi e morbidi per la doccia: una minaccia. Una torcia nel buio: il segnale che bisogna iniziare a correre. I più piccoli, gli stessi che poi sceglieranno di dormire per terra tutti insieme, scappano ancora prima di varcare la soglia nascondendosi stretti nella siepe come a formare un corpo solo: e viene da pensare che forse è così che sopravvivono i bambini sulle assi umide dei barconi sui quali le madri li lanciano pregando che il mare li risparmi o accucciati davanti ai fili spinati che costruiscono immaginari confini. Poi, per fortuna, c’è la musica, che arriva lì, al centro del petto, e agisce come un balsamo, un richiamo: allegra oppure lieve, dal grammofono o dall’armonica che Alice porta nella tasca della giacca.

Il romanzo di Titti Marrone è la straziante testimonianza di quello che succede dopo. È il racconto della lotta per la sopravvivenza, delle dinamiche di potere che si creano tra i più piccoli, della lingua muta per comunicare quando non si trovano parole comuni; di una crosta di pane ammuffita da addentare prima di una fetta di torta appena sfornata. Degli adulti che da vivi fanno più paura dei cadaveri.
All’inizio, in un elenco che ti porta già nel cuore della storia, i bambini di Lingfield sono chiamati ciascuno col proprio nome e cognome, una breve frase a raccontare il personale bagaglio di dolore e solitudine: «Berl Baruch, tra i 4 e 5 anni. Il piccolo che tortura gli animali», «Zdenka Husserl, 5 anni. La bambina che parla con la spilla», «Fritz Friedman. Il bambino che batte a tennis la poliomielite». Fritz che anni dopo, con le sapienti mani di fisioterapista, restituirà al corpo dolorante di Alice tutte le carezze.

[Da la Repubblica del 28 gennaio 2022]

Giornata della memoria. Andra e Tatiana Bucci- Noi scampate a Mengele

Titti Marrone. Se solo il mio cuore fosse pietra. Recensione di Sara Scarafia

 

Note

(1) – Radu Mihăileanu (Bucarest, 1958) regista, sceneggiatore e produttore cinematografico romeno naturalizzato francese. Di Mihăileanu ricordo qui almeno tre film “importanti”: Un treno per vivere – Train de vie (Train de vie; 1998); Vai e vivrai (Va, vis et deviens; 2005); Il concerto (Le concert; 2009)[qui delle scene, nel sito).

(2) – I falascia (anche falascià o falasha) sono un popolo di origine etiope e di religione ebraica.

(3) – Lingfield è un villaggio e una parrocchia civile nel distretto di Tandridge nel Surrey, in Inghilterra, a circa 23 miglia a sud di Londra. Nel 1945 una grande villa di campagna a Lingfield diventa una residenza per i piccoli reduci dai campi di sterminio. La casa era di proprietà di Sir Benjamin Drage, un importante proprietario di negozi di mobili, membro di spicco della Sinagoga di West London. La famiglia Drage offrì l’uso della casa come parte del programma che consentiva ai bambini sopravvissuti all’Olocausto di entrare in Gran Bretagna, grazie all’iniziativa e alla determinazione di Anna Freud, figlia del noto psicoanalista, e Alice Goldberger, sua collaboratrice, che costruiscono un ambizioso progetto di accoglienza e terapia.

 

 

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