Ambiente e Natura

I miei primi… dieci anni (3). Scuola, lavoro e pazzielle

di Pasquale Scarpati

Per la seconda parte, leggi qui

Sempre del tempo delle pagelle stiamo raccontando…
Il lockdown
In quel tempo i genitori e gli educatori, anche con l’esempio, cercavano di abituare e di inculcare nel bimbo l’idea del sacrificio: a casa come a scuola. Il bimbo doveva sacrificarsi nell’eseguire i compiti: luce fioca o inesistente (ai Conti e alla Forna), i compiti a casa insieme al lavoro duro nei campi e/o, soprattutto per le bimbe, in casa; mani intirizzite pecché ’u rasiér’ steve stutate; a volte stomaco talmente vuoto che: ’a panz’ s’azzeccava arret’ i rine (la pancia si accostava alla schiena ).
Ma alla istituzione-scuola poco importava della situazione ambientale in cui viveva il bambino; il tutto era affidato alla sensibilità del singolo insegnante. Bisognava, quindi, fare il proprio dovere a qualsiasi prezzo. Altrimenti si era rimandati agli esami di settembre o bocciati. Così nella scuola ma anche nell’apprendistato dove la porta del laboratorio, dell’officina ecc. non era molto… distante.
Pertanto molti, già in tenera età, abbandonavano la scuola perché, come asserivano:
’u viecchie Silverio cu ’a barbaccia ’ncopp’ i Scuott’ (che potava le viti);
– Ciccill’ dint’i Petrune c’u cazon’ arrepezzat’ (che spingeva la vanga nel terreno);
– Tatore abbasci’u camp’ c’u trench e ’a pippa ’mmocca (mentre rappezzava le reti);
– Peppe ’nfacci’u Schiavone c’u viecchie cappiell’ e ’u cazòne a zompafuoss’ (che dissodava il terreno col bidente e rompeva le zolle):
A’ scola non serv’a nniente: è sulamènt’ ’na’ perdit’i tiempe. Va a fatica’! – aggiungevano – Vatt’ a ’mpara’ ’nu mestiér, ch’è meglie!
Ma loro, ingenui, così dicendo, non sapevano di spingere verso un lockdown ante-litteram oserei dire “naturale”, a cui nessuno faceva caso e di cui nessuno si lamentava.

Fin da piccoli, vanga o zappa sulle spalle oppure bianchi, infarinati di calce, le scarpe insozzate di terra o bianche di calce e a brandelli, rientrati a casa, i ragazzini erano sfiancati. Dopo aver mangiato o per meglio dire masticato a lungo un bella, massiccia fetta di pane, fatto in casa ma vecchio, duro, di una settimana o giù di lì, ammorbidito nell’acqua dei fagioli o dei ceci o nell’acqua “pazza” (acqua bollita con aglio, prezzemolo, sale e qualche goccia d’olio…mi chiedo: per caso si chiamava così perché quell’acqua era asciùt’ pazza per l’ebbrezza di incorporare questo preziosissimo alimento?).
Dopo aver bevuto un bel bicchiere d’acqua e, quando si diventava più grandicelli, un po’ di vino anch’esso annacquato, non vedevano l’ora di andare a dormire presto la sera per alzarsi presto la mattina seguente ad eccezione delle feste “comandate”: Natale e Capodanno.
– Eh già! – dice una persona con occhio malizioso – …il buio era buio, la notte era notte. Dopo l’imbrunire, quando l’oscurità si allungava totalmente scura, nera, atra (tenebrosa) nelle giornate tempestose già nere, quando non c’era il vago chiarore della pallida luna, potevi imbatterti in viandanti solitari ma soprattutto nei munacielli e negli spiriti: esseri infidi e pericolosi. Quasi, però, tutti maschi…
Le donne già da un bel po’ stavano rinchiuse in casa. Appoggiate ai vetri delle finestre, nella mani un eventuale telaio rotondo per ricamare o imbastire qualche punto a giorno, avevano soltanto la facoltà di avere delle apparizioni (visioni). Queste, dileguandosi, erano tallonate a volte dai loro “sospiri” e dal loro gridolino.
– Ahi! – si lamentavano sottovoce, succhiandosi la punta del dito da cui usciva una goccia di sangue! Si erano distratte! Chissà se il flebile sospiro era percepito dall’apparizione!
Qualcuno, come se lo avesse avvertito, volgeva lo sguardo verso la piccola finestra là in alto. Era meglio, quindi, rientrare a casa e rannicchiarsi sotto le pesanti coperte di lana grezza oppure, madido di sudore, stendersi a terra, schiaffeggiandosi per cercare di colpire gli “elicotteri Apache”: le zanzare che durante la notte come angeli custodi o sentinelle vegliavano su tutti gli esseri viventi.
Ma ci si alzava presto la mattina anche perché dormire non era per niente agevole anzi…: si giaceva su pagliericci o su materassi imbottiti di foglie di granturco o altro che “gracchiavano” quando ci si rigirava o pungevano per gli spuntoni che uscivano dalla fodera del materasso.
Le reti!? Tavole di legno (a me, come scrissi a suo tempo, servivano anche come base per il mio presepe).
In un angolo o sotto il lettone troneggiava ’u zi’ peppe (pitale/ vaso da notte) con i suoi “odori” e, perché no, durante la notte, con i suoi “ rumori” altisonanti, molesti.
Infine il canto del gallo o il raglio dell’asino ci mettevano del loro ed il suono mattutino delle campane faceva il resto. Quindi alzarsi presto la mattina era una sorta di liberazione!
Oggi – prosegue sempre quello con l’occhio malizioso – tra giorno e notte si può dire che non c’è soluzione di continuità: la “luce” è perenne, anche se la bolletta sta divenendo più salata del Mar Morto!

Il giorno dopo, prima dell’alba – alle 3 del mattino, se d’estate, perché non c’era l’ora legale – il piccolo apprendista artigiano, contadino, pescatore, manovale, dopo aver tuffato un tozzo di pane ancora più duro in un’ampia tazza di latte fumante che ’u vaccare la sera antecedente aveva portato a casa nel contenitore di latta (quindi senza essere pastorizzato), si avviava al lavoro con la bisaccia in cui la mamma, alzatasi anzitempo, già aveva riposto tutto l’occorrente ed anche ’a marenna ( la merenda/colazione) fatta di pane (sempre lui) e pummadore o di altra verdura di stagione (melanzane sott’olio o peperoni sott’aceto).

Di domenica o nelle feste, ma un poco più tardi del solito, la fetta di pane avrebbe potuto tingersi di rosso per via del ragù che, simile a magma, bolliva lentamente nella pignatta di creta, posta sui carboni o sulla legna della cucina in muratura. Bello a vedersi, grasso al gusto e denso al tatto per via che in esso la mamma o la nonna avevano immerso una voluminosa palla di sugna, circondata da cotiche e tracchie anch’esse abbastanza grasse.
Questa marenna piaceva anche a noi bimbi studenti, ai quali era destinata solitamente una più gentile (sogno ad occhi chiusi): “Mmmm… un panino con la Nutella, un panino all’olio col prosciutto (cotto o crudo), col salame, con il formaggio, ciambella, cornetto, succo di frutta.
Macché! Queste marenne uscivano dalla credenza soltanto il mercoledì per recarsi precipitosamente, quasi di nascosto, nella trasmissione della TV…“Chi l’ha visto” a cui aggiungo: mai!
La nostra colazione, pertanto, si limitava a: latte, fell’i pane c’u zucchere oppure pane, zucchero e… olio; o ancora fetta di pane e marmellata (che odiavo) fatta in casa ed anche pane e friarielli (broccoletti) oppure gli stessi inseriti dint’u culurcio (la parte finale del filone, ’u palatone di pane) dove si creava un buco togliendo la mollica a forma di cono che poi sarebbe servita da tappo. Era ’na merennna a dir poco speciale perché colava dappertutto sugli angoli della bocca, sul grembiule e, se c’era un po’ d’olio, ti leccavi anche le dita facendo un gustoso rommore durante l’intervallo. Poi al bagno per sciacquarsi le mani che però, di lì a poco, si sarebbero di nuovo sapientemente inguacchiate (imbrattate): di gesso, inchiostro, argilla.

Nel 1974 le ricordavamo durante le lezioni con i miei numerosissimi alunni adulti (tutti italiani). Tutti desiderosi di conseguire la sospirata licenza media preclusa, irraggiungibile ai tempi della loro adolescenza.
Bellissima esperienza per me solo da qualche anno entrato nella scuola. Ancora oggi, con quelli che sono rimasti (sempre di meno!) scambiamo due chiacchiere:
Prufesso’, t’arricuorde..? O quando ci incrociamo non manca mai un saluto amichevole e soprattutto un sorriso.

La palestra
A causa di quel lockdown anche le palestre, pur essendo sempre aperte, erano poco frequentate soprattutto durante le “morte stagioni”. Si fregiavano di un nome comune: strada, via, corso, piazza seguite da un nome proprio: nel mio caso Carlo Pisacane e Sant’Antonio. In queste palestre si aggiravano, a volte singolarmente ma per lo più a gruppi, tanti, tantissimi istruttori; nel mio caso: Nino, Peppe, Gaetano, Salvatore, Luigino, Silverio, Raffaele ed altri. Non mancavano le istruttrici : Luciettina, Maria Assunta, Rosanna, Carla, Teresa, Maria Paola ed altre che però non stavano mai da sole.
L’attrezzatura era molto… “sofisticata”, oserei dire all’avanguardia: pietra pomice, strummule, figurine, biglie colorate, nucelle, quella più semplice. Non mancavano peraltro le attrezzature più complesse: carriole (alcune dalla struttura più semplice, altre un poco più articolate). Circolavano, infatti, quelle totalmente scoperte (tre assi/tavolette) e quelle rivestite lateralmente, quelle con le ruote di legno (neppure perfettamente rotonde) e quelle con le ruote a cuscinetto che emettevano un suono ferrigno nella strada silenziosa (erano quelle più desiderate perché ‘sfreccianti’, ma più facilmente ‘struscianti’! Perché con esse più facilmente si poteva sbattere o strusciare lungo un muro). In sott’ordine stavano: monopattini e cerchioni. In compenso non vi era obbligo né di casco né di patente, né si stava guardinghi per qualche vigile con la paletta!

Le istruttrici, invece, erano ancora più parsimoniose! Forse perché già si abituavano ad essere… massaie!). Si accontentavano, infatti, di una corda, di una crastula (pietra piatta) e di un pezzo di gesso. Quest’ultimo serviva per disegnare la campana o settimana, là tra la janca di cumpa’ Tatonno e Maria ’a tabaccara di fronte a ’u ciardine, dove la strada si allarga un pochino; o sulla piazzetta di Sant’Antonio.
Ogni tanto veniva fuori anche una corda. Ma il più delle volte loro si accontentavano del semplice suono che esce dalla bocca perché… non aveva nessun costo: il gioco del “perché”, Vengo da Gerusalemme senza ridere e senza piangere…, le belle statuine.

Era una palestra silenziosa? Il più delle volte, sì. A tratti, però, qualche voce solista di donna intenta nelle faccende domestiche, si faceva sentire: Portami tante roseee… grazie dei fioor…Vieni, c’è una strada nel bosco…
Ma la musica più sonora era costituita dalle loro belle risate argentine ed anche dalle loro litigate. Probabilmente ripetevano le minacce delle loro mamme: – Mò me faccie veni’ i capill’ mman’ (ti tiro i capelli)… tra l’altro, mi chiedo, era un altro modo per scarziare? Si evitava di andare dal… parrucchiere!).
Questa ’mmuina (fracasso), però, non poteva non passare sotto silenzio. Come al solito dava fastidio a i viecch’ arruzzut’ e tardoni. Si affacciavano alle finestre, ai balconi, alle curteglie e sbraitavano minacciosi.
Ma si sa: Iss nun capiscene mai niént’.
Penso che non tener in nessun conto gli anziani sia stata soltanto una prerogativa di quei tempi “bui”. Oggi invece (di questi tempi in cui si sostiene di essere più benevoli, accondiscendenti ecc), sicuramente essi sono più rispettati ed ascoltati! Siete d’accordo con me?

Perché, pensavo, qualche volta non intrufolarsi in mezzo a loro per dare qualche ulteriore…istruzione? Soprattutto nella “campana/settimana” perché si…saltava. “ – Pozz’ passa’?” – chiedevo – …nu’ guaio!? – prontamente rispondeva lei, sorridendo e facendomi la linguaccia (era un gesto che allora “andava di moda” ma soltanto tra le bimbe, noi maschietti non ci saremmo mai permessi!).
Poteva avere un duplice significato (simpatia ed antipatia: a seconda dell’espressione del viso!). Io, adattandomi, le rendevo la pariglia. Poi acconsentiva o negava. Dipendeva dal suo… “estro”. Se negava mi toccava saltare anche due caselle. Ma era piacevole perché si stava piacevolmente alla loro… mercé.
Oppure no? Nella corda poi, solitamente mi… “impicciavo”, perché tentavo di cadere in una determinata… direzione: uno, due, tre, e poi… “stranamente” un piede andava davanti ed uno rimaneva indietro (risate). Insomma a me “impiccione”, “s’impicciavano” anche i piedi. Era, come dire: tutto un impiccio.
Uhé! Nn’avite mai vist’ uno che cade? – Ridevo anch’io con un’aria di sufficienza, come per dire: “Sciocchine: l’ho fatto apposta!” Ma, scommetto, quelle avevano ben capito!
Mi divertivo anche a scimmiottarle nelle belle statuine! Faceva parte del…gioco! Era bello!

[I miei primi… dieci anni (3) – Continua]

Nota della redazione

Di pazziell’ ‘i criature hanno già scritto sul sito Lino Catello Pagano, Martina Carannante e lo stesso Pasquale Scarpati.
Digita – pazziell’ – nel riquadro “Cerca nel Sito”

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