Racconti

I miei primi… dieci anni (1). Le pagelle

di Pasquale Scarpati

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Premessa
Cari amici della Redazione e cari lettori
Tra le mie polverose carte o reperti “archeologici” ho rinvenuto, tra l’altro, le mie pagelle della scuola elementare (oggi primaria).
– Ohibò – mi sono detto – che faccio? Le condivido con altri (universo orbe, tout le monde) o le serbo soltanto per me?
Una persona mi ha detto: – Lascia stare, tanto non importa a nessuno!
Un’altra: – Ti metti al ludibrio di tutti
Un’altra ancora: – Ma la vuoi finire di spingerti nel passato tuo e dell’Isola? Tanto dai più sono ritenuti eventi marginali e tu, insieme agli eventi, giri intorno come sui bordi di una trottola colorata. Potrebbero venire i giramenti di testa pure a te… che quando succede non si sa mai dove si va a sbattere – ha concluso sorridendo bonariamente.

Ci ho pensato un po’, poi ho deciso di pubblicarle per vari motivi: il primo per onorare la memoria di mia madre e, tramite lei, di tutte le persone care che ci hanno conservato gli affetti e ce li hanno tramandati; poi per ricordare e ringraziare gli insegnanti di tutti i tempi che hanno posto buone fondamenta.
Essi, in sinergia stretta anzi strettissima con la famiglia, in base ai tempi, fondendo cultura ed educazione hanno permesso i miglioramenti in ogni campo.
Tutto questo, infatti, è servito e serve per il continuo divenire, per il progresso scientifico e per la tecnologia di cui facciamo tanto uso e… abuso (all’abuso bisognerebbe pensarci più spesso).
Ma forse qualcuno pensa che essi hanno sbagliato a consegnarci ciò che a loro volta hanno avuto dai predecessori e che ci hanno trasmesso perché spesso lo utilizziamo in modo errato, improprio, incivile, selvaggio e, come i gamberi… primitivo. Come se il nostro sapere ci fosse piovuto dal cielo o fosse entrato nella nostra testolina come le fiammelle dello Spirito Santo che discesero all’improvviso sugli Apostoli rinchiusi nel Cenacolo (…caso unico ed eccezionale nella storia o leggenda che sia).
Invece abbiamo “faticato” entrambi:
loro nell’accompagnarci nella crescita culturale e non solo ( iniziando con le asticelle/mazzarelle, pallottoliere e poi dettato);
noi nel cercare di assimilare, anche con l’aiuto della famiglia, ciò che loro ci hanno elargito (con le buone e con le cattive) ma sempre per il nostro bene.
Infine ho pensato di “far toccare con mano” – per quanto è possibile e se le forze mi sorreggono) la realtà di quel tempo che sembra preistorico ma appartiene agli anni ’50 del… secolo scorso! (Brrr… quando sento proferire questa parola mi viene la pelle d’oca: si parla di appena 60 anni fa oppure di due decenni fa! A me dà la sensazione di essere divenuto un albero – “secolare” appunto! – e di appartenere a chissà quale epoca del passato! Quindi, dirà/penserà qualcuno, solo da tagliare e da mandare al rogo!). Si dice – si dice, ma non è confermato – che tanti anni fa, nell’Isola, esistesse ’u ceppone (un vecchio tronco d’albero) dove venivano legati i vecchi che non servivano più!

Così, nell’inviarle per la pubblicazione, ho ritenuto opportuno apporre delle note esplicative e, come al solito, delle considerazioni/digressioni sperando, come ho già detto, che chi legge non legga velocemente (come si è soliti fare) ma si soffermi un pochino ed eventualmente, perché no, aggiunga qualcosa di suo. Magari!
A me succede che la lettura sul monitor sia sempre “meno attenta” di quella “cartacea”; ma sicuramente è un mio “difetto” dal momento che sono stato abituato a leggere su carta.

Il tutto può essere così compendiato: la base, il passato. Non esiste, pertanto, né presente né futuro senza passato.
Dice seraficamente Veruccio: – Ciò che c’è di buono al mondo ci è stato regalato dal Creatore; va pertanto assimilato e custodito, patella sullo scoglio, come custodiamo ciò che ci appartiene di più caro. Nello stesso tempo cerchiamo di riflettere sulla scelleratezza con cui abbiamo utilizzato questo lascito e soprattutto sulle cause che hanno determinato un cattivo impiego.

Come al solito, però, ho iniziato in modo telegrafico, cercando di attenermi semplicemente ai “pezzi di carta” ma poi i ricordi si sono accavallati e come i cavalli, divenuti selvaggi, hanno galoppato per ogni dove…

E dopo questo sproloquio che intendo al maniera in cui nel mondo classico di faceva precedere all’opera una invocazione alle Muse, procedo spedito

Ho dato questo sottotitolo:
Le gloriose pagelle della scuola di una volta

Be tuned (restate sintonizzati)…lo leggerete  nella prossima puntata

Parnaso, Andrea Mantegna, 1497, Musée du Louvre, Parigi (anche conosciuto come Venere e Marte)

Nota ( a cura della Redazione).
Le Muse sono divinità della mitologia classica, nate dall’unione di Zeus e Mnemosine. Secondo il mito greco, esse erano nove e proteggevano varie forme di poesia e d’arte: Clio (poesia epica), Urania (poesia didascalica), Melpomene (tragedia), Talia (commedia), Tersicore (poesia corale e danza), Erato (poesia amorosa), Calliope (poesia elegiaca), Euterpe (lirica monodica), Polimnia (danza e canto sacro).

[I miei primi dieci anni. Le pagelle (1) – Continua]

 

Appendice 11.01.2022 (cfr. commento di Sandro Russo)

Mi ha molto intrigato, nella introduzione di Pasqualino Scarpati, quell’accenno – è la prima volta che lo leggo sul sito – alla tradizione di portare i vecchi a ’u ceppone.
Anche se è, come credo, un modo di dire – Cumpòrtete bbuone ca sinnò te porte a ’u ceppone – qualche base reale ce l’avrà.
Chiedo, a chiunque abbia qualche informazione al riguardo, di renderla manifesta.
A me questa la scoperta di questa tradizione è venuta del cinema, da un film con cui ho molto impressionato (e schifato) i miei amici.
Nel Nord del Giappone c’è il Narayama, il monte delle Querce, sul quale secondo un’antica usanza religiosa, dettata dalle dure leggi della sopravvivenza ancora nel 1860 venivano trasportati i vecchi, passati i settant’anni di età, ad attendere la morte.
Così potente il dato storico-antropologico, da attrarre fortemente letteratura e cinema.
Dal romanzo Le canzoni di Narayama (1956) di Shichiro Fukazawa, portato sullo schermo come La leggenda di Narayama (1958) di Keisuke Kinoshita e successivamente con il titolo La Ballata di Narayama da Shohei Imamura (1983) – il film a cui mi riferisco io – vincitore della Palma d’oro come miglior film al 36º Festival di Cannes.
“Il film di Kinoshita, in stile kabuki, ha il volo alto della poesia, quello di Imamura è di robusto impianto realistico, tutto girato in esterni di montagna, impregnato di un culto della natura che s’esprime anche in una dimensione zoologica, un bestiario onnipresente” (dalla critica).

Tre immagini dal film La Ballata di Narayama:

La vecchia Orin con il viso sporco di sangue dopo essersi rotto i denti sul bordo di un pozzo, per convincere il figlio a “portarla a Narayama” dal momento che nella casa ci sono altre bocche da sfamare

La faticosa ascesa del figlio primogenito Tatsuhei al monte con la madre addosso, imbragata in un buffo seggiolino a spalla

Poi “la vecchia” verrà abbandonata sotto la neve che cade

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  1. Sandro Russo

    11 Gennaio 2022 at 12:56

    Mi ha molto intrigato, nella introduzione di Pasqualino Scarpati, quell’accenno – è la prima volta che lo leggo sul sito – all’ usanza di portare i vecchi a ’u ceppone.
    Anche se è, come credo, un modo di dire – Cumpòrtete bbuone ca sinnò te porte a ’u ceppone – qualche base reale ce l’avrà.
    Chiedo, a chiunque abbia qualche informazione al riguardo, di renderla manifesta.
    A me questa la scoperta di questa tradizione è venuta del cinema, da un film con cui ho molto impressionato (e schifato) i miei amici.
    Nel Nord del Giappone c’è il Narayama, il monte delle Querce, sul quale secondo un’antica usanza religiosa, dettata dalle dure leggi della sopravvivenza ancora nel 1860 venivano trasportati i vecchi, passati i settant’anni di età, ad attendere la morte.
    Così potente il dato storico-antropologico, da attrarre fortemente letteratura e cinema.
    Dal romanzo Le canzoni di Narayama (1956) di Shichiro Fukazawa, portato sullo schermo come La leggenda di Narayama (1958) di Keisuke Kinoshita e successivamente con il titolo La Ballata di Narayama da Shohei Imamura (1983) – il film a cui mi riferisco io – vincitore della Palma d’oro come miglior film al 36º Festival di Cannes.
    “Il film di Kinoshita, in stile kabuki, ha il volo alto della poesia, quello di Imamura è di robusto impianto realistico, tutto girato in esterni di montagna, impregnato di un culto della natura che s’esprime anche in una dimensione zoologica, un bestiario onnipresente” (dalla critica).

    Nell’articolo di base tre immagini del film

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