Racconti

Alimenti preziosi (1). Il caffè

di Pasquale Scarpati

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Oggi, in qualunque supermercato e in tutti i negozi di generi alimentari, puoi vedere il caffè in molteplici confezioni: in grani oppure macinato a seconda della macchinetta usata (moka oppure espresso/casa). In questi ultimi tempi poi si sono sviluppate le cialde e le capsule.
In ogni casa è usuale berlo oppure offrirlo a qualsiasi ora della giornata: la mattina ed anche il pomeriggio, insomma durante tutta la giornata.
Eppure non è sempre stato così.

Negli anni ’50 “del secolo scorso”, il caffè era un alimento oltremodo prezioso. Era offerto soltanto in alcune occasioni (rare) o a determinate persone come quando in casa veniva il medico a visitare l’ammalato. Penso che ciò sia dovuto al fatto che anche lui era considerato” “un accidente”, non importante: uno “sfizio” e come tutti gli sfizi andava centellinato, anche se necessario a volte. Gli “sfizi” dovevano essere evitati, per quanto era possibile!
A volte il caffè veniva usato anche come medicinale per tirarsi un po’ su.

La via del caffè non era lineare ma piuttosto tortuosa. Quando il martedì alle 5 del pomeriggio, ’u vapore arrivava da Napoli (dopo 7 ore di navigazione, lo stesso tempo che impiega l’aereo per arrivare negli U.S.A!) tra la tantissima merce che Muscardino traghettava tra la nave e la banchina, vi erano anche i sacchi di iuta di caffè da 50 Kg. Provenivano da Napoli da uno dei rifornitori di mio padre che si chiamava: Torrefazione Langella & Patria. Ve n’erano parecchi perché in essi erano contenuti vari tipi di caffè che servivano per creare la miscela.
In quel tempo, il più pregiato, a detta di mio padre, era quello chiamato brasiliano dai chicchi grossi oblunghi con un’evidente fessura in mezzo. Al gusto aveva un sapore più dolce. Papà diceva: “Non sa di niente, ha il sapore della paglia”.
Quello meno pregiato era quello detto l’africano dai chicchi bitorzoluti, a volte un po’ rotondi, dalla fessura appena accennata. Quello aveva un sapore più “aspro, forte” (oggi diremmo: deciso). Non era tostato, ma crudo. Non sprigionava alcun odore; muovendolo, l’aria si riempiva di pulviscolo simile a quello che perennemente è sospeso nell’aria. Odorava di stantio. I chicchi tra il grigio ed il marroncino. Non poteva giungere già tostato sia perché sarebbe venuto a costare di più al commerciante e di conseguenza al cliente, sia perché l’abbondante quantità che arrivava non si sarebbe smaltita prima di un lungo, lunghissimo lasso di tempo. Pertanto avrebbe perso la croccantezza e sarebbe stato ancora più difficile da vendere.

La tostatura e di conseguenza la miscela andavano anch’esse centellinate! E toccava a noi, anzi a me, l’incombenza di renderlo caffè tostato.

Il più artigianale attrezzo per la tostatura del caffè

Per questo scopo occorreva un cesto come quello da dove si estraggono le palline per gli abbinamenti delle squadre di calcio nelle varie competizioni. Bucherellato, scuro, con al centro una striscia con molti buchetti da cui si sarebbe sprigionata la fiamma. Una porticina sul cesto, una piccola manopola per regolare l’afflusso del gas ed una manovella su un lato. Con un lungo tubo di gomma lo si collegava alla bombola del gas che peraltro non era molto distante. Il cesto era posto nello spazio, all’aperto, tra il negozio vero e proprio ed una grotta antistante. Là sotto il balcone della casa di zio Pasquale e zia Maria, sotto ’u curredùr’.
Penso che essi, con Civitina e Rosalba, durante la tostatura si sarebbero inebriati, avrebbero sorbito caffè gratis oppure (come fermamente suppongo) ci avrebbero mandato alla malora: erano costrette a tapparsi in casa! In questo cesto si introducevano 5 Kg. di caffè. Poi zio Peppe girava la manopola posta sulla bombola e… Zac con un fiammifero faceva sprigionare il fuoco nel cesto, regolando la fiamma con l’altra manopola più piccola. A me toccava girare la manovella ma sempre nello stesso verso per circa 20 minuti. Fumo verso l’alto e pulviscolo che si andava a poggiare sul pavimento sconnesso o per meglio dire di cemento.
Finalmente l’odore del caffè torrefatto: forte, un po’ aspro, per niente “ buono”.
Al termine, una volta spento il fuoco, il caffè oramai scuro al punto giusto veniva riposto in un contenitore quadrato, aperto in cui sulle pareti all’interno, sui quattro lati, ed anche sul fondo, “sostavano” fogli sottili di ferro zincato. Con una cucchiaia di legno si rimescolava velocemente fino a che non si raffreddava. Al termine si ungeva con l’olio di vasellina perché era di moda il caffè lucido. Penso che ciò servisse per conservare più a lungo la croccantezza del chicco. Dopo avere tostato vari tipi di caffè, mio padre creava la miscela in base al prezzo di vendita. Esso era riposto in capienti contenitori di vetro (buccacci) dalla bocca larga e ben sigillati. Essi erano posizionati in bella vista, in alto dietro il bancone su uno scaffale di legno. Forse per attirare da subito l’attenzione di chi entrava.
Il caffè si vendeva sfuso come del resto si vendevano sfusi la pasta, l’olio ed ogni altra cosa: tra cui anche le alici salate e la conserva di pomodoro. Ad eccezione della scatolette in ferro da 30/50 gr.

Una macchina più professionale per la torrefazione

La maggioranza dei clienti chiedeva 50 gr. o al massimo 100 gr. di caffè. Raramente si superava tale quantitativo. In effetti nel negozio vi erano buste (cuòpp’) di varie dimensioni, ma quelle più grandi stavano inoperose. Divenivano “operative” soltanto per: ’u Pittore” a’ pont’ ’u muòl’, Veruccio ’u chiattone a Sant’Antonio, Cummarella a Santa Maria o Ciccillo d’a Cantina degli amici alle Forna.
– Me dai 50 grammi ’i cafè ’i… (l’etto o il mezz’etto erano illustri sconosciuti! Si poteva intendere tutt’altra cosa!) – diceva la cliente.
Poi, inevitabilmente, sorgeva una discussione sul peso dei cuppetiell’ il cui fondo era, ovviamente, più spesso (ripiegato) dovendo sopportare il peso del contenuto.
Quando per l’Isola “cominciò a correre la luce” (arrivò l’energia elettrica) mio padre comprò una macchinetta che macinava il caffè. Ma prima veniva soltanto venduto in grani.

Giunto a casa, il prezioso alimento veniva custodito in un barattolo. All’occorrenza se ne traeva fuori una piccola quantità e lo si macinava in un macinino cha aveva una manovella in alto.

Era molto piccolo. Si immetteva in esso la quantità di caffè e si chiudeva lo sportellino. Poi si cominciava a macinare.
Trac , trac, trac, trump, trac.
Quando questo rumore era finito e si avvertiva il suono degli ingranaggi che grugnivano tra loro a vuoto, si apriva un cassettino alla base e si raccoglieva il caffè non senza aver posto, in precedenza, un pezzo di carta al di sotto perché nulla, ma proprio nulla, neppure una particella, andasse perduta.
Infine si passava alla funzione per cui era stato comprato. Anche qui era un rito che si protraeva per un po’ di tempo perché il caffè colava a goccia a goccia nella parte inferiore della macchinetta (per lo più di alluminio) dopo essere stata capovolta e dopo avere fatto bollire l’acqua.
C’era chi davanti al beccuccio ci metteva ’nu cuppetiello di carta (a mo’ di tappo) per non far uscire la sottile striscia di fumo, pensando così di rendere il caffè più gustoso oppure penso per far depositare il vapore al suo interno così da avere una “ resa” maggiore.
Il profumo si spandeva per tutta la casa e tutti, una volta servito, accortamente lo zuccheravano. Giravano il cucchiaino con calma e, tra una chiacchiera e l’altra, lo sorseggiavano con gusto. Il caffè macinato che era avanzato lo si poneva in un altro piccolo contenitore. Ma a volte (o spesso) la “posa” del caffè si riutilizzava per provare a estrarne ancora una volta la preziosa essenza… ma il risultato era misero: ’u sciacquariéll’!
Comunque il caffè a quei tempi era un’arte che, come un bel dipinto, andava assaporato, nei minimi particolari.

Poi avvenne la rivoluzione della moka. Molto più veloce e molto più pratica. Si caricava con acqua fino alla valvola di sicurezza, poi si riempiva di caffè macinato il portafiltro. Ma per evitare di sprecare il prezioso alimento al di sotto della macchinetta si poneva come sempre un pezzo di carta che raccoglieva il caffè macinato che eventualmente traboccava. Con il cucchiaino si spianava il caffè e nel contempo si creava una cupoletta al centro. Si avvitava energicamente e si poneva sul fornelletto più piccolo della cucina, abbassando, dopo un po’, la fiamma.
Ecco, dopo un po’ di tempo, usciva dal becco la sottile striscia di fumo e si avvertiva il profumo del liquido nero seguito dal borbottio.

Poiché il caffè che usciva per ultimo dai due fori in alto era piuttosto “trasparente”, con un cucchiaino si mescolava il tutto già nella macchinetta.

Il borbottio della macchinetta annunciava e svelava che il caffè era pronto e secondo alcuni stava a significare che lei era dispiaciuta di dover lasciare la creatura nata dalle sue viscere. Ma secondo altri anticipava ciò che sarebbe avvenuto in seguito: le chiacchiere, i commenti, il “taglia e cuci” delle comari intorno alla tazzina di caffè. Questa, per lo più aveva un bordo molto spesso. Secondo alcuni era per mantenere più a lungo il calore della bevanda, secondo altri, i più maliziosi, serviva per versarne di meno così che si poteva distribuire a più persone.
Ciò che avanzava non si buttava ma veniva posto in una bottiglina o contenitore per poi essere riscaldata (scarfata) all’occorrenza. Anche in questo caso vi erano due soluzioni: o direttamente in un recipiente sul fuoco oppure riscaldata a “bagnomaria”. Chi optava per quest’ultima soluzione diceva che nel primo caso la bevanda prendeva il sapore di “bruciato”.
Alcuni zuccheravano il caffè già nella moka, forse pensando di risparmiare lo zucchero. Con disappunto di chi avrebbe voluto prenderlo senza zucchero. Intanto il profumo si spandeva per tutta la casa ed anche nei dintorni.

Ora con le macchinette espresso o con quelle per le capsule tutto è divenuto più asettico.
– Il caffè – ha detto una persona – è bello a vedersi, senza dubbio più cremoso. Ma il profumo? Dov’è il profumo? Il naso – aggiunge – oggi è andato in pensione. Raramente si avvertono in casa gli odori forti di una volta. Bisogna andare in giro per la Natura per ascoltare con le orecchie lo stormire delle foglie ed il canto degli uccelli e sentire con il naso l’odore di menta o di rosmarino o di erba selvatica…
Ma, per renderlo cremoso, anche in quel tempo vi era un espediente. Bastava versare le prime poche gocce che uscivano dalla macchinetta in una tazzina dove già era stato versato abbondante zucchero. Si mescolava il tutto tipo zabaione e poi nel momento in cui si versava il resto del caffè questo produceva una schiuma. L’inconveniente era che doveva essere per forza zuccherato.
E forse non guasta!
– Ah che bell’o cafè…. – dice Pasquale.

 

[Alimenti preziosi (1). Il caffè – Continua]

1 Comment

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  1. Luigi Maria Dies

    31 Dicembre 2021 at 13:20

    Ciao Pasquale, lunga vita al sacerdote del dio caffè che profumava l”etere mandando fumi agli dei d’u curredur’.
    Via del corridoio, affacciandomi, facevo scendere ‘u canist’. Mia nonna, zi’ PeppenelL’ e zi’ Ìnnar’ mi davano la lista della spesa che fermavo con una cannola, (le mollette del bucato che credo fossero fatte in origine con sezioni di canna) ma solo per appesantirla e non farla volare via e mi diceva: moll’ ‘u canist a Lilian’. Non telefonava, non avvisava, non sollecitava. Semplicemente se ne dimenticava e aspettava (oggi si sarebbero fatte almeno dieci telefonate) Liliana già sapeva che ogni tanto un occhio al retrobottega lo doveva buttare. Tra un cliente e l’altro, prendeva la lista, preparava i prodotti, caricava tutto aggiungeva il conto, con il costo, voce per voce, alla lista unica di tutta la spesa fatta nel mese, la lista faceva su e giù e cresceva finché a fine mese non veniva saldata.
    ‘U canist’ riempito, veniva lasciato in bella vista come per significare che era pronto per essere ritirato. Mia nonna si affacciava prima di mezzogiorno, lo vedeva e mi diceva: “Lui’, tire ‘u canist’ e nunn’u fa’ sbatte ca ce stann’ all’ov”. Una volta su, il primo ad essere controllato era il conto. Finita la spunta, veniva riposto con grande cura in un cassetto al sicuro. Il profumo del caffè, eccome se me lo ricordo. Ricordo Peppe dietro la bilancia a due piatti con tutti i pesi messi li vicino sul banco. I fogli di carta gialla per incartare qualsiasi cosa. I misurini per l’olio sfuso. Le uova, sicuramente di Ponza co attaccata a volte qualche piuma di gallina. E le prime “buatte” di pomodori. Ce le procuravamo, vuote, i stagnariell’, le usavamo per pescare a polpi o per togliere l’acqua dalla barca, ‘a lanz’.
    Mi è poi crollato un mondo quando mi è stato detto che Liliana, come noi a casa l’abbiamo sempre chiamata, in realtà si chiama Uliana. Me ne sono fatta una ragione pensando che l’ufficiale dell’anagrafe, scrivendo, avesse attaccato talmente la i alla L da creare la lettera U  che ha modificato il nome. Perciò per me Liliana resta Liliana. Non è che a uno gli cambi i ricordi per un errore in un ufficiale del comune.
    Ciao Pasquale. Un abbraccio a Liliana da Luigi.

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