di Enzo Di Giovanni
In tempi non sospetti un precursore lucido come Arthur Rimbaud disse che bisogna essere assolutamente moderni. Intendeva dire che l’uomo ha la necessità di trasformarsi in continuazione, di ricreare un uomo nuovo, una nuova società, nuovi linguaggi, pena la morte.
Un esistenzialista dimenticato, Paul Nizan, nel suo romanzo Aden Arabia scrisse che l’uomo a trent’anni è una carcassa, perché l’ansia di crescere, di bruciare la vita consuma sogni e speranze.
Il nostro è un tempo difficile.
Da un lato viviamo una vita sospesa, e non solo per il Coronavirus. Un mondo pesante, con pochi slanci idealistici, in cui tutto sembra già stato detto, con pochissima fiducia nel futuro. La religione più praticata, il capitalismo, impone un rigido vangelo finalizzato alla produttività, in nome della quale tutto è lecito e tutto diventa secondario, se non è propedeutico ad essa.
Dall’altro lato, le sempre crescenti emergenze ambientali e le problematiche connesse ad una accelerazione insostenibile di tecnologie e consumi in un mondo sovrappopolato impongono – dovrebbero imporre -, un ripensamento su larga scala del nostro tenore di vita, e dei caposaldi che lo regolano.
Non è più questione di progresso e tradizione, o per lo meno non solo.
E’ che proprio abbiamo perso la bussola, e non abbiamo il coraggio e la lucidità di ammetterlo.
Al punto che per cercare prospettive di un futuro possibile abbiamo bisogno di testimonianze eccelse che però proprio perché tali, purtroppo, non fanno sistema.
Renzo Piano è una di queste. Nella bella intervista riportata da Sandro Russo descrive un suo progetto di riqualificazione urbanistica a Mosca.
“Quella che un tempo era una tetra centrale elettrica si è trasformata nel più grande spazio in Russia per l’arte contemporanea… con accanto un bosco di betulle… far nascere questa lanterna magica era un’idea vagamente assurda, ma attraente.”
L’Architetto, nella sua accezione più nobile, osa costruire i propri sogni, e li rende fruibili alle persone.
“Il lavoro dell’architetto è quello di progettare, ossia portare avanti una funzione e se non c’è questa forza utopistica non si va da nessuna parte… Non faccio politica, ma è indubbio che l’architettura sia l’arte della polis, della trasformazione della città.”
A Ponza abbiamo invece l’irrisolta problematica di Chiaia di Luna.
E gli interventi urbanistici di cui si parla riguardano il taglio degli alberi, laddove l’Architetto impianta boschi di betulle ed alberi di jacaranda. Bella, la testimonianza, o meglio il grido di dolore, di Luigi Dies che vorrebbe il minimo sindacale: un perché, che non avviene mai. “Chi conduce il gioco ci vuole così”, è l’amara considerazione che ne trae.
…Quanti Renzo Piano ci vorrebbero?
Eppure, almeno in teoria, non è mai tardi. A patto di cercare nuove strade, perché la modernità cercata da Rimbaud non è una ricerca ossessiva di andare oltre, di svecchiarsi, ma piuttosto di capire quando è il momento di cambiare rotta perché un sistema sbagliato produce stagnazione, immobilismo.
Se lo chiede anche Franco De Luca nella sua metafora della parracina prena: “la politica, nell’attuale dialettica fra le forze in campo, non è espressione naturale della vita… potremo mai essere pronti per il cambiamento?”
Ce lo chiediamo, spesso, anche noi.
Il cambiamento passa per tante vie. L’ormai “nostra” Lianella descrive il suo piccolo mondo antico, Tufo di Minturno, che tante similitudini ha con il nostro. Un mondo che non esiste più, in cui non vi era motivo per uscire, perché vi era già tutto. Qualcuno ricorderà la Ponza in cui si poteva essere autosufficienti, in cui arti e mestieri si tramandavano con orgoglio. Oggi siamo oltre. Non c’è nemmeno più l’esigenza di partire, come nelle leggende del secolo scorso in cui c’era quasi-tutto e si andava a Napoli per comprare una bicicletta. No. Oggi si compra tutto on-line, dai viaggi alle marmellate, passando per i mobili. Non c’è più un dentro ed un fuori, semplicemente perché non esiste più il senso del paese e della collettività in un mondo liquido ed indistinguibile.
Forse per questo cerchiamo avidamente il ricordo, che sia la Ponza silenziosa del 1955
o tracce di ponzesi da Padre Pio
o ci riscaldiamo alle storie di marioli, sommergibili e vino del Fieno.
Soprattutto quando le storie ci vengono raccontate da altri, come nel caso del nostro S. Silverio nel libro di Liliana Madeo.
O quando tentiamo di focalizzare e storicizzare l’otto dicembre -4 e -5
Per finire, tornando alle testimonianze di un cambiamento necessario, degne di nota due pubblicazioni segnalate da Sandro Russo, non senza aver omaggiato una grande testimone del nostro tempo, Lina Wertmuller.
Stirpe e vergogna è un saggio di Michela Marzano che nasce dall’esigenza di fare i conti con la storia. Non c’è redenzione vera, se si rimuove il passato. L’autrice scopre di aver avuto un nonno fascista della prima ora, il cui peccato originale era stato accuratamente rimosso in famiglia. Allo stesso modo in cui l’intero paese, cullandosi sul falso storico di italiani brava gente, ha dimenticato che le leggi razziali del ’38 sono state il logico punto d’arrivo di una ideologia violenta e razzista, e non un errore di percorso. I rigurgiti neofascisti, dichiarati o in nuce, sono solo la conseguenza di questa vergogna. Altro che i treni partivano in orario…
Sullo stesso solco, un’opera di Paul Auster solo apparentemente diversa. Partendo dalla biografia di Stephen Crane, un importante scrittore americano degli inizi del Novecento, Auster fa una disamina cruda e sincera del suo paese: “abbiamo creato una nazione fondata sulla schiavitù, e non c’è mai stata un’ammissione ufficiale di questo.”
Di più: “L’esperimento umano fallirà perché siamo così stupidi. La Terra si rigenererà, perché non ha alcun bisogno di noi. Una volta che non ci saremo più, l’inquinamento sparirà, le foreste ricresceranno, gli animali torneranno.”
Di noi, resteranno solo le betulle di Renzo Piano, e gli alberi di jacaranda.