Racconti

Il rito del pane

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Quando zia Gelsomina faceva il pane, cosa che, soprattutto d’inverno, avveniva una volta la settimana, chiedevo a mia madre di poter dormire da lei.
Abitavamo sopra casa sua. Una casa di tre stanze, di quelle a cupola, costruita agli inizi del secolo scorso.
Un grande fabbricato di tre piani costituito da un piano interrato ove c’erano, una dopo l’altra, la cantina, la grotta per le galline e i conigli ed un locale con il lavatoio, completo di cufenature (1), la macina per il grano e un grande focolare per tanti usi, primo fra tutti quello di accogliere una gigantesca pentola per la bollitura dei pomodori in bottiglia.
Sopra c’era l’appartamento di zia e al secondo piano il nostro. Il tutto si completava con  un ampio cortile, utilizzato, quando era il tempo, per la battitura dei cespi dei legumi (la scogna) e un piccolo giardino per la coltura di ortaggi ed insalate.
Oggi tutta quella proprietà è passata di mano; al suo posto un confortevole e noto Bed & Breakfast che, nella trasformazione, ha conservato i caratteri originari pur subendo la modifica della destinazione.

Al centro la casa degli Scotti
prima che diventasse Bed & Breakfast

Cosa siano stati per me quei luoghi negli anni dell’infanzia l’ho già raccontato qualche anno fa in “Quando gli Scotti ci appartenevano”. Qui voglio parlare dei ricordi legati al rito del pane.

Il giorno predestinato era in genere la domenica e si cominciava presto quando era ancora buio.
Questo il motivo per cui il sabato sera scendevo da zia.
Mi ospitava, sistemato nella stanza di mezzo, un lettone ad una piazza, di quelli con il materasso alto di crine e le spalliere in ferro arricchite di fregi. La testiera, in particolare, aveva al centro un rosone con una immagine floreale fatta di colori scuri che oggi, ricordandoli, mi viene istintivo associare alle tonalità delle nature morte di Caravaggio.
Il letto era alto da terra, penso, una ottantina di centimetri, tanto che per salirvi zia mi faceva trovare accostato un piccolo scanno di legno.
Confesso che le immagini floreali della testiera, che un po’ mi turbavano, e l’altezza del letto, che non poco apprensioni mi trasmettevano per la paura di cadere durante la notte, non mi facevano dormire granché.
Ma non m’importava… tutte le paure sfumavano di fronte al pensiero di gustarmi la lavorazione del pane e tutto il mondo che di lì a poche ore si sarebbe mosso intorno.

Un grande orologio a pendolo scandiva il tempo. Volutamente zia lo teneva dieci minuti avanti. Diceva che così non sarebbe mai arrivata tardi a messa visto che la chiesa era lontana da casa e per strada ci si fermava sempre qualche minuto per un saluto a chi si incontrava.
Con il buio e il silenzio i rintocchi del pendolo si avvertivano ancora di più. Quella volta mi avevano fatto compagnia tutta la notte.

Mi svegliò lo scoppiettio dei pennecille (2) bruciati che zia utilizzava agli inizi per alimentare il fuoco.
Il tepore di una folata di aria calda arrivò fino al letto e mi sfiorò la guancia come il buffetto di una mano amica.
Fuori era buio. La cucina, appena illuminata dalla luce fioca di una lampadina a basso voltaggio come si usava allora per risparmiare, a tratti si pennellava di rosso quando le fiamme sotto l’effetto stimolante dei tralci secchi ardevano fino a uscire dalla bocca del forno.
Infilai le ciabatte che zia mi aveva preparato vicino al letto e strisciando come su un percorso di sci di fondo arrivai fino in cucina.
Il calore che si spandeva uniforme nell’aria mi accolse in un abbraccio assieme allo sguardo materno di zia.

“Enzu’, e che ce fai ccà, già te si’ susute?!” (3)
“A zi’ nun tenghe cchiu suonne e… e po’ me vulesse ‘mparà pur’ie a fa ‘u ppane”
e ancora
“A zi’ quanne ‘nfurnamme?”

Non mi rispose zia ma, lasciando in un angolo la pala con cui aveva appena sistemato il fuoco, si volse verso di me e con un sorriso, mentre si inspessivano le rughe che le rigavano le guance, mi prese per  mano e mi portò verso la mattere (4), sistemata su due sedie messe l’una contro l’altra, completamente coperta di panni di lana dicendomi
Enzu’, ‘a zi’, aizze nu poche ‘i cuperte e guarde…
Alzai le coperte con la stessa curiosità di quando si scarta la sorpresa di un uovo di Pasqua e mi si illuminarono gli occhi nel vedere cosa conteneva la mattere. I panetti, alcuni a forma tonda altri sfilati, nelle dimensioni contenute della sera prima si erano gonfiati al punto di non lasciare spazi vuoti tra di loro.
Alcuni di essi erano talmente cresciuti da esibire delle piccole crepe sulla parte più alta. Lo strato di farina che li aveva coperti e che andava scivolando verso i bordi ricordava tanto la neve quando si scioglie.

In quel momento i miei occhi incrociarono le mani nodose di zia che avevo visto la sera prima lavorare l’impasto fatto di acqua tiepida e farina in cui aveva sciolto il lievito madre. E poi con l’aggiunta di un po’ di sale giù a girare e rigirare spingendo con le nocche delle mani in quella massa che si scomponeva e componeva continuamente. Fin quando non la si lasciava riposare al caldo per farla lievitare e successivamente dividerla in panetti.

Il fuoco ora ardeva senza scoppiettare, in maniera composta. Il caldo che si era diffuso uniformemente per tutta la cucina era piacevole e avvolgente.

Enzu’, a zi’, n’atu ppoche e po’ ‘nfurnamme… così dicendomi si avvicinò alla bocca del forno e con la pala di legno diede una sistemata ai tizzoni ardenti dai quali, spostandoli, ogni tanto si sprigionava qualche fiammella.
E’ pronte, disse zia, con il chiaro riferimento al forno i cui mattoni avevano assunto il giusto colore per potervi adagiare il pane per la cottura.
I gesti di zia erano come se seguisse un protocollo; i movimenti mi ricordavano tanto quelli che il sacerdote faceva sull’altare durante il rito dell’eucaristia. Io, stretto nelle spalle, raccolto con le braccia conserte cercavo di catturare ogni movenza. Era affascinato da quello che faceva, la seguivo in silenzio timoroso di distrarla. Con delicatezza prendeva i panetti, li adagiava sulla pala di legno imbiancata di farina e prima di infornarli ad ognuno dava una carezza quasi a volerli benedire.
Fece questo fino agli ultimi due che, più piccoli degli altri, mi disse erano per me.

Chiuse la bocca del forno con la portella di legno che fermò con una zeppa e subito dopo chinandosi verso di me, mi scompigliò i capelli e con la mano ancora sporca di farina mi diede una carezza.
I primi bagliori di luce filtrarono attraverso gli scuri. Si stava facendo giorno
Zia andava ogni tanto di là nella stanza ove era l’orologio a pendolo per controllare l’ora. Io la seguivo con lo sguardo e, nell’attesa di assaporare il pane caldo, mi soffermavo a guardare ogni cosa. Come se mi trovassi in quel luogo per la prima volta quando invece ci passavo quasi tutti i giorni.
Era come se non lo conoscessi e ogni tanto scoprivo qualche cosa di nuovo come il mortaio di marmo con il pestello in un angolo del focolare o lo strano macina orzo che pendeva al muro assieme ad alcune pentole in una zona della stanza.

Il soffitto basso della cucina per via del mezzanino che c’era sopra e lo scalandrone posto in un angolo per accedervi davano a quell’ambiente un’aria da laboratorio e molto più raccolta delle altre due stanze che avevano la volta a cupola. La presenza, poi, di tante cose a partire dal tavolo per finire alla madia e al grande focolare con tutto quello che c’era sopra mi restituivano, pensando alla lavorazione del pane, l’essenza e le fatiche di tutto quello che apparteneva al mondo contadino.

Nell’aria cominciava a spandersi il buon odore del pane, quell’odore che crescendo mi sono portato dentro e che, ora, raccontandolo avverto ancora.
Vieni Enzu’, la voce di zia interruppe il silenzio. Viene che ‘u pane è pronte e così dicendomi si avvicinò al forno, scostò la portella e subito dopo con la pala estrasse una ad una le pagnotte e i filoncini deponendoli nella madia.

Gesti antichi, come la cura di coprirli con una grande tovaglia di cotone grezzo.
Il profumo e la fragranza del pane appena sfornato, più deciso di quello che avevo avvertito poco prima, si impadronì della mente e dei sensi. Ne rimasi avvolto come in una coperta e quella sorta di magia accade ancora oggi quando passo per un forno a legna che sta sfornando o quando ho tra le mani una pagnotta di pane caldo. E’ inevitabile il piacere che provo. Un piacere semplice, primitivo che mi riporta istintivamente ai quei tempi, ai racconti di zia, alle sue amorevoli attenzioni e all’atto finale di quel rito quando, tagliate due fette, me le porgeva ancora calde con un filo d’olio sopra…

 

Note
(1) cufenature = grosso vaso in muratura di forma conica usato per fare il bucato, situato di norma vicino al lavatoio
(2) pennecille =  fasci di tralci di vite
(3) susute = alzato
(4) mattere = madia ove veniva fatto crescere il pane

 

 

3 Comments

3 Comments

  1. Sandro Russo

    10 Novembre 2021 at 08:42

    Credo che tutti noi abbiamo dei rimpianti su certi aspetti del passato. Per non aver dedicato una maggiore attenzione a persone, fatti, anche immagini e paesaggi che rimpiangiamo, a distanza di tempo, una volta che sono scomparsi.
    A me succede quasi ogni volta che cucino, di ricordare zia Olga, la sua sapienza delle cose, i suoi gesti precisi, ’a mesura ’ndi mmane che naturalmente aveva.
    A questo ho pensato leggendo il raccolto di Enzo sul pane.

    Siamo diventati piuttosto esperti, sul sito, per aver raccolto i ricordi di una intera generazione, i riti di un mondo che è cambiato così velocemente negli ultimi cinquant’anni, dopo essere rimasto per lungo tempo quasi immobile (o aver mostrato cambiamenti lentissimi), se confrontato con il ritmo attuale.
    Così ho ammirato l’eccezionale memoria eidetica di Pasqualino Scarpati, la sua capacità di scomporre eventi del passato quasi come in un film, fotogramma per fotogramma (ricordate la fuga per i vicoli di Ponza del toro destinato al macello?). Mentre Enzo con la stessa precisione richiama e rimette insieme le emozioni che fanno parte di un ricordo, restituendole intatte e fruibili anche per noi che pure le abbiamo vissute, seppur con maggiore superficialità.

  2. Tea Forte

    11 Novembre 2021 at 09:27

    Enzo, ho letto con piacere il tuo racconto. Emozioni, odori, profumi di un mondo che fu, mi sono tornati alla mente associati ai ricordi della mia infanzia nella terra molisana dove il rito del pane scandiva momenti di unione familiare e di autentica commozione. Le parole del racconto, i dettagli, i termini dialettali colorano la narrazione riportandoci ai tempi dell’innocenza, quando tutto era puro e l’anima si impregnava di quella purezza come il profumo del pane, simbolo di vita e di calore. Grazie Enzo, per aver fatto rivivere un mondo scomparso, ma sempre vivo nella memoria

  3. giancarlo giupponi

    19 Novembre 2021 at 20:41

    Quando un racconto ti prende, ti coinvolge non è solo perché lo scrittore ha saputo scrivere i pensieri e i concetti in modo coinvolgente e logico ma è anche perché egli ha saputo trasmettere nelle sue parole un’esperienza profonda, reale e ricca di ricordi indelebili e preziosi. Questo è ciò che ho percepito nel leggere le parole di Enzo. E poi credo, che quando si parla di pane tutti noi siamo coinvolti in modo particolare, si parla di un elemento che ha accompagnato per millenni l’uomo nel suo percorso storico. Una scrittrice contemporanea che si è sempre occupata di cucina e cibo ha detto: “La vista e il profumo di un pane appena cotto ha un fascino romantico che trascende qualsiasi altra riuscita culinaria (Elisabeth Luard).
    Sta di fatto che alla fine, poco fa, appena concluso il racconto di Enzo mi sarebbe davvero piaciuto assaggiare una fetta del pane fatto dalla sua cara zia Gelsomina, sicuro che quello sarà stato un pane dal sapore unico e speciale!
    Grazie Enzo

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