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Ho tralasciato di piangere i morti

di Francesco De Luca

 

Ho tralasciato di piangere i morti: è un retro-pensiero che mi duole in questi giorni in cui il ricordo dei cari defunti è più presente negli impegni quotidiani. I fiori, i lumini, la visita al cimitero, l’incontro con conoscenti e amici con cui ci si scambia considerazioni imperniate sulla linea di discrimine fra il tutto della vita vissuta in carne e il nulla in cui ci fa piombare la morte.

A reggere il valore delle parole è il ricordo. Soltanto il ricordo. Sbrindellato dal passare degli anni, esacerbato per livori repressi o edulcorato da sentimentalismi d’occasione.

Il ricordo, per vantarsi d’essere preciso, occorrerebbe che fosse documentato, ma non è questo il ricordo che rimbalza fra le bocche di chi è in visita devota fra i terrazzi del nostro piccolo cimitero. Appollaiato sullo sperone della Madonna appare come un porto-rifugio. Incurante degli sgarbi provenienti dalle onde insufflate dai venti. Si scrostano i muri delle cappelle, si levigano i gradini, il nostro cimitero subisce gli insulti e resiste. In ossequio alla pratica del culto dei morti.

Questo nacque nella notte della preistoria presso gli ominidi per rafforzare la presenza di chi vive, in faccia al tempo che tutto cancella. Presso quegli abbozzi di gruppi sociali, in balìa delle pressioni di una vita combattuta fra il soddisfacimento dei bisogni primari e la tensione a dare un senso all’esistenza, iniziò a rappresentarsi una condizione per cui chi muore afferma la vita perché proietta la presenza in una realtà oltre l’esistenza terrena. Afferma altresì il legame di chi vive al momento con la filiera di altri uomini che hanno lottato per attestare il valore della famiglia, della sua difesa, dello stanziamento nel territorio. Tutto ciò ha radicato un sentimento tanto forte da strappare gli ominidi dalla cieca istintività e far sbocciare in essi l’autocoscienza. Perché ha fatto intravedere a chi era oberato dalle esclusive incombenze quotidiane che poteva rappresentarsi una realtà ultra-terrena. Invisibile ma possibile. Costruita su basi, non quelle necessitate della realtà terrena, bensì su basi più benevoli, meno cruente, meno violente e, per di più, eterne.

A Ponza, la colonizzazione borbonica ha trovato nel Culto dei Morti un modo per rinsaldare i nuclei familiari, di cementarli con la malta della religione, di apportare solidità al fragile e sudato tentativo di impiantare una comunità sopra una terra non scelta e da sottomettere alla stanzialità.

Non si dimentichi che per un decennio la comunità dei coloni poté contare soltanto su fosse comuni, e non erano possibili loculi personalizzati. Ovvero, per essere più chiari, i defunti perdevano identità nell’ossario. Il che rendeva più fragile il ricordo e con esso logoro il legame con la famiglia. E questo toglieva consistenza e valore alla vita.
Una vita senza ricordo è una vita persa.

Ecco perché lacera la mia sensibilità il pensiero di aver tralasciato di piangere i morti.
E’ una ferita che la coscienza non può tollerare. Specie la coscienza di un isolano, la cui sola forza storica risiede nel ricordo dei suoi concittadini.

A Ponza al Cimitero porto-rifugio fulge un faro. Testimonia una presenza umana coriacea e ne invia i bagliori nel tempo futuro!

 

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