Attualità

Un’inchiesta sulle braccianti straniere nell’Agro pontino

Segnalato dalla Redazione

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Riportiamo integralmente perché getta una luce su una problematica poco conosciuta e ci riguarda da vicino, questo articolo di Clemente Pistilli, da una ricerca di Marco Omizzolo, da la Repubblica edizione odierna, in Cronaca di Roma (anche in file .pdf a fondo pagina)

L’inchiesta
Stupri e violenze. L’inferno nascosto delle braccianti nell’Agro Pontino
di Clemente Pistilli

Una ricerca alza il velo sulle condizioni delle nuove schiave nei campi in provincia di Latina. L’abuso dei veleni
Le nuove schiave. Oltre allo sfruttamento dei sikh ancora più terribili sono le condizioni delle mogli dei braccianti

Sottopagate, costrette a mangiare in piedi, senza poter nemmeno contare sul diritto di andare in bagno. Ma soprattutto obbligate a cedere il loro corpo ai padroni. Al gradino più basso dello schiavismo che tristemente impera in troppe aziende dell’agro pontino ci sono le donne di nazionalità indiana. Il lavoro nei campi è un inferno per i sikh, come ormai emerso da numerose inchieste e processi a Latina, ma il girone più profondo è riservato alle mogli dei braccianti.
Una realtà nascosta quella portata ora alla luce da Marco Omizzolo, docente di Socio-politologia delle migrazioni presso l’Università La Sapienza e sociologo Eurispes, e scandagliata in un’indagine condotta nell’ambito della campagna internazionale # OurFoodOur-Future di WeWorld, un’organizzazione impegnata da 50 anni a garantire i diritti di donne, bambine e bambini in 25 Paesi del mondo.

“Io la pecora, loro i leoni”
Gli abusi sessuali, stando all’indagine di Omizzolo, sono all’ordine del giorno in troppe aziende agricole dell’agro pontino. «Ho un figlio, la vita non è facile per una donna con un bambino e senza marito in un paese straniero, lavorando come bracciante a tempo determinato. La gente vede una donna straniera sola con un bambino e pensa che sei una facilmente disponibile, disponibile a tutto. Invece io cerco di essere seria e di pensare a mio figlio e queste voci cerco di non ascoltarle», ha riferito al sociologo Sunita, una bracciante di 32 anni. Ancora: « Si tratta di indiani e italiani che pensano che in quanto sola, io sia una pecora e loro i leoni. Ma fino a quando sono parole, diciamo che non mi curo di loro. Il problema è quando ti chiamano al telefono, ti mandano audio o video coi quali ti invitato esplicitamente, magari perché ubriachi, a stare con loro».

“Sesso dietro il capannone”
Il messaggio che viene inviato alle braccianti è chiaro: «Ti dicono che se vuoi il rinnovo del contratto devi essere carina con loro, seguirli dietro le serre, nei bagni o dietro il capannone» , ha dichiarato Shergill. Un’altra lavoratrice: «Non importava se eri sposata o meno, se acconsentivi o meno. Se il padrone ti chiedeva direttamente o tramite un caporale di andare a letto con lui dovevi andare a basta. Questo valeva sia per le indiane che per le rumene. Allora avevi solo due possibilità: accettare e continuare a lavorare, oppure rifiutare e scappare. Dovevi lasciare tutto, anche i documenti negli uffici, e andare via, magari tornare a casa».
Così Sunita: « Se cedi una volta, come io stessa ho visto, poi ti stanno addosso tutti i giorni. Ti passano dietro e ti dicono certe cose all’orecchio, oppure si strusciano, ridono di te davanti ai colleghi che poi ti vedono come una facile e disponibile ed hai finito di vivere. Anche io ho ricevuto queste attenzioni».

“La bracciante italiana”
La comunità indiana in provincia di Latina è la seconda più numerosa d’Italia. I sikh sono diventati i nuovi schiavi e per le donne va anche peggio. Lo ha confermato al sociologo anche una bracciante italiana, Paola: «Vedevo come venivano trattate le braccianti immigrate. Erano sempre le ultime della fila, sempre sfruttate, a volte anche maltrattate verbalmente. Il padrone aveva una scala di precedenze, secondo la quale al primo posto venivano i braccianti italiani, anche perché qualcuno era suo amico, poi le braccianti italiane come me, poi i lavoratori immigrati uomini e infine le donne straniere, e nello specifico in primis rumene e poi, per ultime, quelle del Bangladesh». Alle lavoratrici di nazionalità indiana vengono riservati gli ultimi posti nei furgoni utilizzati per raggiungere le campagne, i peggiori, e non viene dato loro neppure un posto dove sedere per consumare il pasto.

Le paghe negate
«Avevamo lavorato per circa 6 mesi e il padrone italiano ci diede un solo pagamento in contanti di 300 euro. Solo che noi senza soldi non possiamo vivere. Puoi aspettare il pagamento di un mese, massimo due, non sei mesi continui. Non siamo animali. Siamo donne», ha raccontato Akhila. La paga media? 3 euro l’ora. «Io in busta paga ho sempre un terzo circa le giornate effettivamente lavorate. Le lavoratrici italiane sempre qualche giorno in più», ha specificato Sunita.

I veleni nei campi
Ma c’è anche di peggio e riguarda i veleni che le braccianti sono costrette a maneggiare prive di qualsiasi protezione.
«Per me erano un grosso problema – ha riferito una lavoratrice a Omizzolo – non avevo il patentino per i veleni. Prima della minaccia di sciopero quel lavoro lo faceva un capo italiano esperto. Poi lo hanno fatto fare a me, ma stavo molto male. Respiravo quegli odori fortissimi e ogni volta mi sentivo male. Avevo dolori allo stomaco, agli occhi e a volte mi gocciolava il naso. La notte poi non riuscivo più a dormire perché ero molto stressata».

Le autorità invitano da tempo i lavoratori sfruttati a denunciare, ma neppure questo è semplice. Lo ha spiegato bene Pino Cappucci, segretario generale Flai- Cgil Roma e Lazio: «Siamo di fronte a un doppio abuso, quello lavorativo e quello sessuale, e, inoltre, a un doppio ricatto che pongono le donne in una condizione di maggior fragilità con la paura di denunciare sia lo sfruttamento che le violenze subite».
«La paura e la vergogna impediscono una esposizione e una denuncia concreta». Drammi che spingono WeWorld a chiedere alla Commissione europea di presentare senza ulteriori ritardi una legge che obblighi le aziende a rispettare i diritti umani e l’ambiente lungo le catene di approvvigionamento globali per prodotti commercializzati in Europa attraverso un processo di due diligence (*).


Nota
(a cura della redazione)
(*) –
L’espressione inglese due diligence (in italiano: diligenza dovuta) indica l’attività di investigazione e di approfondimento di dati e di informazioni relative all’oggetto di una trattativa. Il fine di questa attività è quello di valutare la convenienza di un affare e di identificarne i rischi e i problemi connessi, sia per negoziare termini e condizioni del contratto, sia per predisporre adeguati strumenti di garanzia, di indennizzo o di risarcimento (fonte: Wikipedia)

Pagina 7 in formato .pdf
Repubblica. Agro pontino. 17.10.2021

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