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Fondi di ricordi – Checco bello

di Francesco De Luca

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L’era informatica amplifica ogni notizia, ne ha bisogno, tanto che, se non ce n’è una, i mezzi di informazione sociale gonfiano i sospetti, le intenzioni perfino, e li fanno circolare come straordinarietà. L’universo mediatico si gonfia di autocompiacimento e gongola.
Nell’era precedente a questa la notizia trovava eco nell’intimo della persona, e lì riceveva il suo valore.

Ebbi la notizia della morte di nonno Checco da mia cugina presso la quale abitavo, frequentando gli studi superiori a Roma.

Quando le condizioni si combinavano si partiva il sabato pomeriggio per arrivare sul far della sera a Capodimonte, sul lago di Bolsena, il paese originario di mia madre.

Io seguivo i miei cugini nel loro desiderio di spezzare l’ordinarietà della settimana, il lavoro, gli aggravi che la vita metropolitana comportava. Tanto è vero che, all’arrivo in paese, mentre le donne pensavano alla sistemazione per dormire, gli uomini andavano da Zi’ Riccetto, una bettola dove si giocava a carte, accompagnando la compagnia con  bicchieri di vino. Da quelle parti il vino è rosso, e il più gradevole è la Cannaiola. A quello avevo accesso io. Che non giocavo perché ero all’oscuro della tecnica del conteggio delle carte, degli accoppiamenti, dei rilanci. Ero tenuto da parte per non affliggermi di maleparole. A me non dispiaceva perché mi lasciavo trasportare dall’atmosfera paesana di Capodimonte e dall’affetto contenuto di cui mi avvolgevano i parenti. Ero il figlio di Martina, e studiava a Roma. In me rivedevano il biondo di chi s’era ritirata nell’isola di Ponza. Zia America, zia Celeste erano le sorelle di mamma; Costante, Bruno i figli.

Da Zi’ Riccetto si usciva tutti un po’ intronati, ma i miei cugini romani traevano da quegli incontri una contentezza palpabile.

L’indomani mattina andai a trovare nonno Checco. Stava, di solito, seduto sull’uscio della casa di zia America, con cui abitava. Minuto, il bastone fra le mani, curvo, col cappello.

Un saluto fugace con me, mentre col cugino più grande, Eugenio, qualche battuta la scambiava. Riguardava la pesca, perché nonno Checco era pescatore del lago di Bolsena. Lo era stato, ed Eugenio, anche lui appassionato di pesca, lo stuzzicava a rivelargli segreti del mestiere.
Lo stradone aveva ciottoli sonanti, il passeggio era esiguo e il nonno doveva accontentarsi di quanto gli scorreva intorno, come un ciocco in un vento d’ autunno.

L’indomani telefonai a casa: “Mamma, ho visto nonno ieri…”.
“Come stava?”
“Bene… mi è sembrato bene…”

Aveva età venerabile, e quando morì aveva toccato i 100 anni.
La notizia me la comunicò mia cugina Pina: “Nonno Checco… lo sai che lo chiamavano ‘Checco bello’…”. Lei rideva, compiaciuta, ed io restavo incredulo.

Troppo distratto per queste cose. Stavo vivendo la stagione dell’adolescenza e quel vecchino non l’ho introiettato emotivamente come meritava. Avrei potuto conoscere di più di me nel tutto, se avessi avuto con lui più scambi partecipati.

Si diventa grandi per esperienze assommate invece che di esperienze metabolizzate. Più grandi sì, ma non più maturi.
Nel fondo dei ricordi giacciono episodi, abbandonati all’oblio. Fino a che emergono. Perché nell’animo è tutto presente. Per tutto il tempo che ci è dato.