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“Drive my car”, un film giapponese imperdibile

di Tano Pirrone
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Drive my car è una canzone scritta da Paul McCartney nel 1965 col contributo musicale di John Lennon. Il pezzo è inserito nell’album Rubber Soul, il sesto della produzione del gruppo musicale inglese The Beatles, il primo a non avere in copertina il nome dei ragazzi di Liverpool. E Drive my car è il primo pezzo della facciata A: «un rock vigoroso e serrato che vede in avvio un breve e graffiante assolo di chitarra». All’elaborazione del pezzo dette un contributo importante George Harrison, avendovi egli intravisto analogie con Respect di Otis Redding (di questa canzone ne torneremo a parlare fra qualche giorno, quando saremo riusciti a vedere il promettente biopic sulla vita di Aretha Franklin di Liesl Tommy).

Originariamente al pezzo di McCartney/Lennon/Harrison era stato dato il melenso nome Golden rings; la cura ricostituente di George Harrison ne fece il pezzo “vigoroso e serrato” che conosciamo, ormai inadatto a fregiarsi dello sdolcinato nome originario: ecco, allora, che in coerenza con l’argomento (“una ragazza di facili costumi”) fu suggerito da George Harrison il nome pruriginoso che passò poi alla storia della musica, per l’appunto Drive my car, una perifrasi che nell’ambiente del blues alludeva al sesso; di conseguenza anche il testo è ricco di sottintesi sessuali.

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Ora, però Drive my car è un film – lungo 179’ – proiettato in una sala del nostro cinema preferito, il Mignon, rifatto magnificamente e pieno zeppo di promesse per la stagione appena partita. Regista del film è Ryūsuke Hamaguki; a monte troviamo l’omonimo racconto del grande Haruki Murakami (1) – lo scrittore senza Nobel –, contenuto nella raccolta Uomini senza donne del 2014. I bravissimi attori sono Hidetoshi Nishijima, Toko Miura, Reika Kirishima, Yoo-rim Park.

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Il protagonista Yusuke Kafuku (Hidetoshi Nishijima, ottimo attore di cinema – debuttò nel 2002 in Dolls di Takeshi Kitano (2) – e, naturalmente, di serie tv, cui deve la sua notorietà… almeno fino alla partecipazione a Drive my car!) è attore e regista teatrale, specializzato in teatro multilingue ed è stato incaricato di prepararne uno a Hiroshima: ci sono attori giapponesi, filippini, cinesi, coreani e altri, e ognuno parla la propria lingua, compreso una giovane attrice coreana, muta, che usa la lingua dei gesti coreana.

Gli spettatori potranno godere in contemporanea di questa originalissima babele, seguendo il filo della storia su uno schermo. Il testo che dovrà essere rappresentato è Zio Vanja di Cechov. L’opera è considerata uno dei capolavori dello scrittore russo: nei quattro atti si intrecciano le conversazioni e le banalissime vicende dei personaggi. L’indifferenza abulica di fronte agli eventi, l’attesa sospesa di una catastrofe che sembra imminente rendono questo testo una grande anticipazione della drammaturgia novecentesca.

L’atmosfera stressante dell’opera non invoglia il protagonista ad assumere il ruolo di Vanja, mantenendo per sé la scelta del cast, la direzione tecnica e artistica dello spettacolo. Yosuke Kafuku ha chiesto di abitare per il tempo delle prove e delle recite (circa tre mesi) ad un’ora di distanza dal teatro in modo da poter provare le battute di Zio Vanja, con un metodo sperimentato dal regista e messo in pratica con la moglie Oto Kafuku (Reika Kirishima): la registrazione delle battute degli altri attori e lo spazio vuoto, il silenzio per lasciare a Yosuke Kafuka il tempo di recitare la sua battuta. La scrupolosissima responsabile dell’Istituto che produce l’evento lo obbliga ad accettare un’autista, esperta e giovanissima (o, se preferite, giovanissima ed esperta): sarà lei a guidare la bellissima Saab 900 Turbo rossa che Yosuke Kafuku possiede da almeno tredici anni: «Drive my car», le dice, infatti, il fosco proprietario della Saab, e non ci sono sottintesi né doppi sensi. Una pacata rassegnazione, forse, o un’inconsapevole previsione dello svolgersi della sua storia.

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La giovane tristissima autista Misaki Watari (Toko Miura) ha ventitré anni, la stessa età che avrebbe la figlia di Yusuke e Oto Kafuku, morta a quattro anni per una malattia fulminante. Improvvisamente, due anni prima, anche la moglie Oto è morta e Yusuke trascina la sua vita solitaria nel ricordo delle due donne della sua vita. Il rifiuto iniziale di avere per autista una donna (il maschilismo giapponese è noto e conforta gli stanchi epigoni italiani) si trasforma in accettazione e tenera amicizia, forte legame di solidarietà, un rinato rapporto da padre e figlia e da figlia e padre.

La crisi del regista, ingigantita dalla presenza nel cast di un giovane attore, bel tenebroso, che lui sa essere stato amante della moglie, si risolve; al meglio, infatti oltre che regista egli sarà anche Zio Vanja, un magnifico Zio Vanja, che affronterà cosciente dei trabocchetti della parte, ma forte dell’elaborazione felice dei due lutti e dal forte rapporto stabilito con la figlia ritrovata. La sostituzione dell’attore cui egli aveva – nonostante sapesse del legame che lo univa alla moglie Oto -, affidato il ruolo di Zio Vanja, si rende necessaria, perché questi (Okada Masaki) uccide in un raptus di violenza un giovane che l’aveva fotografato. L’ultima scena ci notifica che Yusuke e Misaki Watari vivono insieme e la stabilità formale della famiglia è garantita dalla presenza di un bel cane, che appunto, fa tanto famiglia: tornano insieme dal fare la spesa, Misaki e il cane (e se c’è cane c’è famiglia, anche in Japan), sulla Saab 900 turbo rossa, naturalmente… Drive my car!

Abbiamo letto in cima ad una bella recensione un altrettanto bel giudizio, sintetico, ma chiarissimo e che condividiamo pienamente. Dice il critico che in un mondo ideale – e con una giuria diversa – la Palma d’oro del 74° Festival di Cannes sarebbe andata a un film sulla carta “impenetrabile” (giapponese di 3 ore..), ma sul grande schermo indimenticabile. E’ del nostro film che scrive e ci trova totalmente d’accordo.

Quello che abbiamo scritto è solo una parte delle cose che il film porta in sé, compresa la bellezza di sentire raccontare storie, inventate da Oto ed elaborate insieme con il marito. E parecchio altro ancora. Tutte da scoprire, al Mignon, o dove vi viene più comodo. Purtroppo Drive My Car si è dovuto “accontentare” del premio per la sceneggiatura e del premio FIPRESCI (3).

[5]Una recensione “esemplare” di Roberto Nepoti, da La Repubblica del 23 settembre 2021 (cliccare per ingrandire)

Note

(1) – Murakami Haruki, scrittore giapponese contemporaneo (1949) è un grande ammiratore dei Beatles e conoscitore delle loro canzoni che entrano spesso nelle trame dei suoi romanzi; o anche nei titoli, come è il caso di questo Drive my car e di Norvegian wood, del 1987.

(2) – Dolls, di Takeshi Kitano, film di culto, seminale per diversi motivi, del 2002

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(3) – La Fédération internationale de la presse cinématographique, in acronimo FIPRESCI, è la federazione internazionale della stampa cinematografica. Fondata nel giugno del 1930 a Parigi, ha sede a Monaco di Baviera. È composta da circa una cinquantina di associazioni nazionali di critici cinematografici, denominate “sezioni nazionali”, e da una trentina di membri individuali.

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Il commento di Patrizia Maccotta a Drive my car (del 4 ott. 2021)

Visto ‘Drive my car’. Splendido.
Letto l’articolo. Grazie.
Ho trovato bellissime le storie della moglie del regista: come Sheherazade racconta storie al marito e, soprattutto, a sé stessa per non morire. Il potere della parola. Anche per entrare in intimità con sé stessi (vedi le prove di teatro – volutamente  straniante Zio Vania così lontano con il suo tumulto di sentimenti dall’animo giapponese e comunque capace di ermeneutica anche per loro).
Anche qui il senso di colpa.
E quanto vero (almeno per me) che “i morti non smettono di vivere con noi”.