Ambiente e Natura

Il mio “Dune” (2). I film

di Sandro Russo

 Per la prima parte dell’articolo (i romanzi), leggi qui

 

Un romanzo come Dune anzi “Il ciclo di Dune”, con l’invenzione fantastica di un intero mondo, storia e geografia, usi, costumi e miti inserito nell’affresco globale di un universo futuro non poteva passare inosservato al cinema.

Ma si è aspettato un po’, perché l’impresa faceva paura a tutti: registi, sceneggiatori e soprattutto ai produttori.
Poi nel 1984, con l’avvento sempre più importante degli effetti speciali nel cinema statunitense, è stato finalmente prodotto un film, Dune, diretto da David Lynch ai suoi esordi, che ha cercato di condensare in 137 minuti l’intera vicenda del primo romanzo (1).

Il film di Linch, visto a suo tempo nella versione uscita nelle sale, a me è piaciuto, ma non sono un teste attendibile perché da lettore di buona memoria ho riempito tutti i buchi della trama con quel che sapevo.
Si dice che il film sia stato stravolto dalla fluviale durata iniziale per gli incongrui tagli imposti dal produttore Dino De Laurentis. Io lo ricordo favoloso, a tratti geniale, come per le scene del deserto, l’imbrigliamento e la cavalcata del “verme delle sabbie” (Shai-Hulud, o il piccolo creatore), invenzione del ‘nostro’ Carlo Rambaldi (il ‘padre’ anche di Alien e di E.T.).

Comunque il film – in parte anche per la forte attesa a causa della popolarità dei libri di Herbert – alla sua uscita fu oggetto di pesanti critiche e giudicato un insuccesso anche commerciale. Malgrado ciò, è divenuto un cult del cinema di fantascienza e ha recuperato abbondanti guadagni nel mercato dell’home video.
Trailer (Intro in italiano) del “Dune” di David Linch (1984):

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DUNE. Le serie tv
In seguito al film sono stati prodotti anche numerosi videogiochi, mentre nel 2000 è stata realizzata una miniserie televisiva, Dune, il destino dell’universo, seguita nel 2003 da I figli di Dune, tratta dal secondo e terzo romanzo del ciclo.

Il “Dune” di Jodorowsky
Jodorowsky’s Dune è un film del 2013 diretto da Frank Pavich. È un documentario sul progetto – mai realizzato – di Alejandro Jodorowsky.
Nel 1975 dopo il successo di El Topo e La montagna sacra Alejandro Jodorowsky era il cineasta intellettuale più ricercato del mondo, aveva carta bianca e quello che voleva era realizzare il film più importante della storia del cinema, traendo spunto dai romanzi della saga di Dune di Frank Herbert.
Il suo Dune, doveva essere un film rivoluzionario in grado di cambiare la mentalità delle giovani generazioni fornendo nuovi modelli di riferimento. Per fare questo il regista aveva coinvolto un team incredibile che comprendeva i designer H. R. Giger (anche lui da Alien), Moebius (della famosa rivista Métal Hurlant) e Chris Foss (reduce da Superman (1978) e Alien del 1979] oltre all’esperto di effetti speciali Dan O’Bannon, le musiche dei Pink Floyd e attori come David Carradine, Mick Jagger, Salvador Dalì e Orson Welles.

Per anni questo Dune mai girato è stato l’oggetto definitivo del desiderio cinefilo, assieme un librone contenente tutto il film scena per scena, illustrato da Moebius, con gli inserti di costumi e scenografie di Giger.
Questo libro è una sorta di filo conduttore in base al quale Jodorowsky rievoca il suo film, raccontando per filo e per segno come sarebbe dovuto essere ma soprattutto rievocando l’incredibile storia di come sia partita e poi naufragata questa produzione, come abbia convinto quelle incredibili personalità a lavorare con lui e come li abbia stimolati per due anni a dare il meglio su un progetto che non si è mai fatto (fonte: mymovies.it, di Gabriele Niola; 2013).

Sul versante personale, ho inseguito questo documentario più volte e per varie vie, sempre sul punto di acciuffarlo. Pare che riuscirò a vederlo il prossimo sabato al Detour, una sala per cinefili a Roma. Incrocio le dita.
Intanto – come aperitivo – il trailer da YouTube (2013):

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Terzo film della serie – non volendo considerare le due serie tv -, il recentissimo Dune di Denis Villeneuve [il regista di Arrival (2016), Bladerunner 2049 (2017), per citare solo gli ultimi film], attualmente nelle sale e di cui si parla molto.

Ho scelto mostrare i trailer dei tre film (due realizzati e uno rimasto alla fase di progetto), perché su un materiale di partenza sterminato e un profluvio di idee, il lavoro di sceneggiatori e registi è – oltre che immane – da considerare con attenzione per i risultati ottenuti, lo sguardo, il messaggio. L’essenza del cinema.

Trailer del Dune di Villeneuve (2021)

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Nota

(1) – Del “Dune” di David Linch esiste una versione del film fatta da fan che raccoglie tutte le parti tagliate in produzione (come la scena dove viene affogato un piccolo creatore per ottenere l’acqua della vita) ed elimina alcuni elementi incoerenti con il romanzo (come la pioggia alla fine). La regia è di un certo Alan Smithee (nome d’arte usato per opere non autorizzate/approvate dal regista originale) ed è del 1988; ci sono almeno due diverse versioni e dura in totale circa 3 ore e due minuti, a seconda della versione (fonte: Wikipedia].

[Il mio “Dune” (2). I film – Fine]

Appendice del 10 ottobre

Dune di Denis Villeneuve (2021)
di Tano Pirrone, dell’8 ottobre 2021

Volevo dire soltanto che il film Dune non mi ha dato la minima emozione, il minimo fremito necessario fra spettacolo e fruitore. Zero: l’ho trovato, freddo, distaccato, glaciale. Villeneuve è bravo con le scene grandiose: le gran di costruzioni, le immense astronavi, i cortei di streghe nere giaietto su fondali grigi, ambienti claustrofobici… Non tutte le scene, in verità, ché alla fine le scene di guerra ghirigoreggiavano, che neanche i fuochi a Posillipo per la festa di San Gennaro.

Ho visto al mitico Detour il documentario Jodorowsky’s Dune del 2013, di Frank Pavich, lo abbiamo visto insieme ed eravamo felici di vedere un artista (allora ottantaquattrenne, oggi novantaduenne, che dio lo riguardi) ribollire di passione per la sua opera tentata, con follia e tenacia indomita, e non compiuta; abbiamo visto sbalorditi e ammirato la quantità di invenzioni sceniche, straordinariamente belle e appassionanti. Stasera le ho, in parte, riviste nel film di Villeneuve e mi sono rattristato: le invenzioni vulcaniche e folli del poeta cileno realizzate con glaciale perfezione industriale.

Villeneuve ha fatto il bis di quell’altro film succedaneo del capolavoro di Ridley Scott, Blade Runner, cui non basta aggiungere 2049 per farne un successore sullo stesso piano artistico e spettacolare. Ridley Scott e il suo film sono in un iperuranio irraggiungibile, e come angelo vola in quei cieli Rutger Hauer, nei panni del replicante Roy Batty, ricordando a noi tutti la caducità della vita:

«Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.»

Iperuranio irraggiungibile a questo punto per il canadese, che pure ci era parso grande costruttore di atmosfere, mondi, personaggi, storie, linguaggi e forme che ci hanno affascinato in Arrival di appena l’altro ieri, quel 2016, che sembra appena passato ed è già passato un lustro. Non ci siamo! Dov’è il regista straordinario di La donna che canta (Incendies) del 2010, l’ottimo concreto regista di Prisoners del 2013 e di Enemy e Sicario, rispettivamente del 2013 e del 2015?

Qualche parola voglio spenderla per il protagonista, gli altri attori si sa che ci sono perché stanno nei titoli di coda: sfido chiunque a scoprirli nei panni dei nostri successori di fra ottomila e rotti anni. Parlo di Timothéè Chalamet , nei panni scomodi di Paul Atreides (se lo sa Agamannoni so’ c…!): ci era piaciuto in Un giorno di pioggia a New York (diretto da Woody Allen nel 2019) e ci era rimasto totalmente insignificante nell’assai poco piaciuto Chiamami col suo nome di Luca Guadagnino (2017), Che devo pensare, se non che il bel giovanotto è molto influenzabile – e chiaramente influenzato – dalla personalità non solo artistica del regista che lo dirige. Che sia una buona qualità molti registi lo pensano, che per essere bravo, ci debba mettere molto del suo, come pensava e sempre fece Marlon Brando… vabbé!

Alla fine del film ho parlato con 4 delle sette persone che eravamo in sala; ho chiesto il loro parere: tutti, con leggere sfumature, hanno dato la stessa mia valutazione. Vorrà dire qualcosa?

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