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Tanti i piani di lettura dei “Tre piani” morettiani

di Tano Pirrone
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Occasione ghiotta, ghiottissima, qualche sera fa: riapertura del cinema Mignon, sotto casa, prima di Tre piani, il (quasi) nuovo film di Nanni Moretti e, allo spettacolo delle 21, c’è Nanni che presenta il film. Revival!

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Mignon: ottime programmazioni, scendo in pigiama e bastone e sono comodamente seduto… al cinema, quello vero; Tre piani, che fossero anche quattro o cinque (con ascensore, s’intende!) vanno benissimo (lombi israeliani di ottima fattura, mi dicono) e Nanni, che quando lo vedo salire sul palco mi frastorno e mi sembra di essere nel cinema di Palermo (era tempo di indiani metropolitani) pieno zeppo e con le Gitanes che vomitavano fumo come ciminiere cinesi, davano Io sono un autarchico e la foto di gruppo è sistemata. Mentre Moretti sta per concludere, guardo mia moglie e le sussurro: «Ti ricordi i girotondi con Nanni davanti alla Rai?».

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Non si sfugge all’amarcord se c’è Nanni di mezzo, e Nanni ad ogni cambio di direzione c’è sempre, con la sua scrittura, le sue manie, i suoi simulacri. L’ultima volta di Nanni al cinema è stato tre anni fa nel 2018 con il bellissimo Santiago, Italia, documentario che racconta i mesi successivi al colpo di Stato in Cile, nel 1973: interviste ai protagonisti (fatte allora, appositamente), filmati d’archivio, per mettere soprattutto in risalto il ruolo della nostra ambasciata a Santiago del Cile, presso cui in centinaia si rifugiarono i perseguitati dal regime fascista di Pinochet, e da dove riuscirono ad arrivare in Italia e rifarsi una vita.

Tre piani è il primo film di Nanni non basato su una sceneggiatura originale, sua: è tratto invece, dal fortunato omonimo libro di uno scrittore israeliano cinquantenne, Eshkol Nevo. Questo è già un elemento che potrebbe depistarci: ci sarà un motivo, certamente in qualche intervista, qualcosa Moretti l’avrà confessata, due o tre parole, come fa sempre. La ragione potrebbe essere che la struttura a piani corrisponde nell’intervento dichiarato dello scrittore israeliano ai tre livelli della teoria freudiana della personalità: Es, Io e Super-Io.

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Insomma, andato via Moretti, mi convinco che il film sarà complesso e che una sola visione non mi basterà: la prima è l’impatto con il mio Es, la seconda con il mio Io, la terza visione farà i conti con il mio Super-Io.
Mi rilasso (non so nulla, appositamente del romanzo e pochissimo della trama) e giuoco seriamente a fare lo spettatore.

Una palazzina a tre piani, in un buon quartiere di Roma, tre famiglie, tre storie che s’intrecciano, si dilatano, creano antagonismi, lontananze, deviazioni, dolori, gioie, rinascite. Un microcosmo, insomma, In cui Moretti interviene con una strana recitazione e alcune piccole, apparentemente insignificanti novità. Tutto finisce bene e il testimone è, nonostante i nostri palpiti, decisamente in pugno alle giovani generazioni, che vanno verso la vita, con le loro insicurezze, i dolori dell’infanzia, ma anche con tanta speranza.

Nanni salta a pie’ pari il periodo della pandemia e cerca di riprenderci per mano, ma afferra prima di tutte le mani giovani dei nostri figli e dei nostri nipoti ed affida loro i compiti che sono stati anche i nostri, senza giudizi, forse. Tutti possiamo sbagliare e tutti abbiamo il diritto di riprovarci ancora una volta. Chi cede e si perde, dev’essere compreso e mai dimenticato.

Questo era il groviglio di sensazioni che mi attraversavano e che sono stati la molla dell’applauso a cui mi sono unito alla fine, dopo il solito atto di sospensione e di indecisione, e questo il motivo per cui ho sussurrato al mio amico: «Bello… bello…»

[5]Nanni Moretti in sala, prima dello spettacolo

Molte sensazioni, ma insufficienti per scriverne seriamente. Così ho fatto un po’ di ricerche e, come faccio sempre, ho raccolto tanta documentazione sull’argomento. Di norma do solo un’occhiata e poi scrivo. La leggo, poi, solo per un confronto. Credo che sia nella prassi.
Fra le cose che ho messo da parte, c’è la recensione di Mariarosa Mancuso su il Foglio di qualche giorno fa, ripresa nel numero di sabato/domenica (ieri/oggi), in cui Mancuso ha un’intera pagina dedicata. Ho letto, non ho saputo trattenermi: le cose che scrive Mancuso sono sempre divisive; nessuno tende agguati e colpisce come lei. Qualche volta, anche di più. E’ eccessiva (ma non sono certo io che tirerò la pietra!). E allora rispondo come posso, impostando la mia pre-recensione “contro”: fu così con la bellissima trasposizione cinematografica del suo spettacolo teatrale Le sorelle Macaluso di Emma Dante. Lo stracciò ed io risposi a tono. La stessa cosa sono costretto a fare per Tre piani.

Mancuso apre le danze con l’affermazione apodittica: «… il risultato è deludente». Poi dice, come se fosse normale, che il romanzo si svolgeva a Tel Aviv e il film invece a Roma, perdendo così «i dettagli interessanti», come se il film fosse o dovesse essere la trasposizione pedissequa in immagini in movimento del romanzo! Continua, lamentandosi che nella zona della palazzina, di sera passi solo una macchina e quella macchina fa un incidente: ipotesi di terzo tipo, inverificabile, secondo Mancuso, tipo l’astronave aliena che rimane agganciata ad un ippocastano e cade come corpo morto cade nel melmoso Tevere, sparendo fra i flutti. Omette Mancuso che la macchina guidata dal giovane ubriaco figlio di due persone perbene che fanno i magistrati, investe un’innocentissima signora provocandone la morte e distruggendo all’unisono la vita del marito. Omette, così… come se in quelle vite nulla fosse successo!

Nell’altro piano una donna ha appena dato alla luce una bambina ed il marito è lontano, ahiahi… la bestia umana lavora su una piattaforma petrolifera ed è costretto a lunghi periodi di assenza, ma Mancuso fa finta di nulla e spiaccica giudizi a destra e a manca. Accorcio: «La recitazione è poco convincente» ed invece è volutamente coesa con la storia; Nanni discetta e infine, dulcis in fundo Margherita Buy è vestita in modo sciatto e gli arredi sono dozzinali, comprati tanto a metro… che cattivo gusto questi piccoli borghesi morettiani!
Ultima frase: «Dialoghi generici e spenti, anche nell’isteria».

Appunto, gentilissima Mancuso, appunto!
Tornerò a scriverne… dimenticare Mancuso!